L’inquinamento dell’aria, se “significativo e misurabile”, è
inquadrabile nella nozione di danno ambientale di cui all'art. 300 del
d. lgs. 152/2006, rientrando l'aria nel novero delle "risorse naturali".
Cass. Sez. III n. 51475 del 14 novembre 2018 (UP 3 lug 2018)
Pres. Ramacci Est. Zunica Ric. xxxxxxxx ed altri
Danno ambientale.Inquinamento atmosferico e danno ambientale
Danno ambientale.Inquinamento atmosferico e danno ambientale
RITENUTO IN FATTO
1. (omissis), tramite i rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del 17 luglio 2017, con cui la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza resa il 15 gennaio 2016 dal Tribunale di Pavia, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di (omissis) in ordine ai reati di cui agli art. 260 e 258 comma 4 ultimo periodo del d.lgs. 152/2006 in relazione all’art. 483 cod. pen., a loro rispettivamente ascritti.
Quanto alla (omissis), la Corte di appello ha dichiarato non doversi procedere in ordine al reato di cui all’art. 260 del d. lgs. 152/2006 ascrittole al capo 1, confermando invece la condanna in primo grado rispetto agli ulteriori reati di cui agli art. 260 del d. lgs. 152/2006 (capo 2), 640 commi 1 e 2 cod. pen. (capo 6) e 356 cod. pen. (capo 7), rideterminando la pena finale in mesi 10 di reclusione.
La Corte territoriale, inoltre, revocava la provvisionale disposta in primo grado in favore della costituita parte civile, Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, confermando la statuizione di primo relativamente al risarcimento del danno in suo favore, da liquidare in separata sede (venendo altresì ridimensionati gli importi liquidati in favore delle ulteriori parti civili).
In sintesi, il nucleo essenziale delle varie contestazioni elevate a carico degli imputati concerne le attività svolte presso l’impianto di coincenerimento denominato (omissis), creata alla fine degli anni novanta al fine di consentire alla (omissis), società impegnata nella produzione e nella lavorazione del riso, di risparmiare sui costi di smaltimento degli scarti derivanti dalla lavorazione del riso, producendo contestualmente energia; nel corso degli anni, in base a specifiche convenzioni stipulate con varie società, l’attività della (omissis) si concretizzava, in particolare, nella cessione a terzi di ingenti quantitativi (5.451,41 tonnellate) della “lolla di riso”, ovvero dello scarto proveniente dalla lavorazione del riso, peraltro talora miscelata anche a rifiuti pericolosi, e nell’immissione di energia elettrica, attraverso l’entrata in funzione, verso la fine del 2002, di un impianto di termovalorizzazione.
Nell’ambito di quest’attività, secondo la prospettiva accusatoria e restando nel perimetro delle imputazioni riguardanti i soli ricorrenti, vi sarebbe stato, dal gennaio 2007 all’ottobre 2009, un traffico illecito di rifiuti (capo 1), consistito nel miscelare la lolla di riso con altri rifiuti anche pericolosi, alterandone la matrice originaria e trasformandola così in un rifiuto, per poi rivenderla ad allevamenti zootecnici che la utilizzavano come lettiera per gli animali.
Un ulteriore traffico illecito di rifiuti (capo 2) sarebbe inoltre consistito nel cedere, trasportare, ricevere e comunque gestire illecitamente ingenti quantitativi, pari a 38.870 tonnellate, di rifiuti di varia natura, con caratteristiche non contemplate dall’autorizzazioni dell’impianto, nonché nel miscelare i combustibili dell’impianto con rifiuti anche pericolosi, come polveri di abbattimento fumi, nonché nel mantenere il sistema di monitoraggio delle emissioni in atmosfera SME in condizioni di permanente malfunzionamento, tutto ciò al fine di conseguire un ingiusto profitto, consistito per la (omissis) nell’ottenimento di maggiori somme di denaro versate dai conferitori dei rifiuti per lo smaltimento e dall’abbattimento dei costi di smaltimento degli altri rifiuti., con condotta posta in essere in Pavia dal gennaio 2007 al marzo 2010.
In questo contesto, un ulteriore addebito (capo 3) concerne la falsificazione dei certificati di analisi provenienti dal laboratorio (omissis), dove operavano (omissis) e (omissis), in ordine alla composizione dei rifiuti conferiti alla (omissis), con condotta posta in essere dal 2007 al 2009.
Le ultime due imputazioni concernono i reati di truffa ai danni dello Stato (capo 6) e frode nell’esecuzione dei contratti (capo 7) in danno dell’ente pubblico “Gestore Servizi Elettrici” (G.S.E.), reati che si assumono commessi in quanto la (omissis), presso il cui impianto rifiuti anche pericolosi non conformi alle autorizzazioni rilasciate, induceva in errore il G.S.E. sulla regolare esecuzione delle due convenzioni concluse con la (omissis) nel 2002 e nel 2004 per la cessione di energia elettrica prodotta da biomassa, vendendo energia qualitativamente diversa da quella pattuita e conseguendo in tal modo un ingiusto profitto, pari ad almeno € 23.277.001,00, rappresentato dalle somme indebitamente percepite per la vendita concordata di energia elettrica pulita, fatti questi commessi in Pavia dal gennaio 2007 al marzo 2010.
2. Compiuta questa breve premessa generale, è ora possibile iniziare l’esposizione dei motivi di ricorso, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, così come previsto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1 (omissis) ha sollevato 4 motivi.
Con il primo, lamenta l’inosservanza degli art. 31 della l. 308/2004, 184 bis e 185 lett. F) del d. lgs. 152/2006, osservando che la lolla di riso è stata indebitamente assimilata a un rifiuto, sebbene il D.M. Ambiente del 5 aprile 2006 e il D.M. Ambiente del 2 maggio 2006 ne abbiano disposto la cancellazione dall’elenco dei rifiuti non pericolosi, dovendo la lolla di riso essere inquadrata quindi nella categoria dei sottoprodotti, ai sensi degli art. 184 bis e 185 lett. F del d.lgs. 152/2006, a nulla rilevando la sua destinazione, come invece ritenuto dai giudici di merito con una chiara forzatura esegetica del dato normativo.
Con il secondo motivo, viene censurata l’inosservanza degli art. 360 cod. proc. pen., 220 disp. att. cod. proc. pen., nonché della norma Uni 10802 nell’ambito della fase di campionatura dei rifiuti, evidenziandosi in proposito che, in occasione della perquisizione disposta il 6 ottobre 2009, furono disposti dei prelievi costituenti accertamenti tecnici non ripetibili, in quanto aventi ad oggetto materiale soggetto a modificazione, con conseguente necessità di dare corso alla disciplina degli avvisi di cui agli art. 360 cod. proc. pen. e 220 disp. att. cod. proc. pen., con conseguente inutilizzabilità degli esiti dei prelievi recepiti nella consulenza tecnica degli ing. (omissis), (omissis) e (omissis), anche perché compiuti senza il rispetto dei metodi di cui alla norma tecnica Uni 10802.
Con il terzo motivo, la difesa deduce il difetto di motivazione della sentenza impugnata, in relazione al diniego della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen., evidenziando che la Corte territoriale aveva omesso di pronunciarsi sulla richiesta difensiva di disporre una perizia al fine di compiere delle opportune analisi chimico-fisiche sui materiali sequestrati, visti anche i limiti degli elementi probatori forniti dall’accusa, non essendo inidonee la consulenza tecnica e le videoriprese eseguite dal Corpo Forestale a stabilire la composizione chimica del materiale incenerito.
Con il quarto motivo, infine, la ricorrente lamenta il giudizio sulla sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati, con riferimento tanto al dolo del fatto quanto al dolo della partecipazione; si rileva al riguardo come non sia stata raccolta nel processo alcuna prova di un contributo fattuale della (omissis), non solo nella forma della determinazione, ma anche della mera adesione partecipativa, non essendo stato considerato che la ricorrente era una semplice impiegata contabile, priva di competenze in tema di rifiuti.
Viceversa, le intercettazioni telefoniche e gli altri elementi valorizzati dalle decisioni di merito, come la sua partecipazione al Comitato di direzione, erano del tutto insufficienti al fine di provare il suo coinvolgimento nei fatti contestati, posto che la ricorrente aveva iniziato a occuparsi occasionalmente degli acquisti della lolla di riso e dei conferimenti dei rifiuti solo dal 30 settembre 2009, cioè 6 giorni prima dal momento in cui ha avuto luogo la perquisizione della P.G.
2.2 (omissis) ha sollevato 7 motivi.
Con il primo, la difesa eccepisce la violazione dell’art. 500 comma 2 cod. proc. pen., avendo il Collegio posto a fondamento della decisione il contenuto di una dichiarazione resa nelle indagini preliminari, oggetto di una mera contestazione al teste (omissis), il quale in dibattimento aveva dichiarato di non ricordare le sue precedenti dichiarazioni, che quindi erano inutilizzabili.
Con il secondo motivo, il ricorrente contesta l’illogicità della motivazione e il radicale travisamento delle prove dichiarative e degli elaborati tecnici del consulente della Pubblico Ministero e della Guardia Forestale; si osserva in particolare che dalle deposizioni dei testi (omissis) e (omissis), dipendenti della (omissis), non si ricavava affatto che i soggetti coinvolti nella filiera della gestione dei rifiuti, dunque anche gli autisti della (omissis), fossero in grado di rendersi conto della reale composizione dei rifiuti trasportati.
Quanto agli accertamenti oggetto della consulenza tecnica dei dr. (omissis), (omissis) e (omissis), la difesa rimarca l’irrilevanza del richiamo alle loro verifiche tecniche, in quanto i consulenti del P.M. non avevano mai fermato o controllato un trasporto effettuato dalla (omissis).
In ordine poi al prospetto dei rifiuti in entrata nello stabilimento della (omissis) redatto dalla Corpo forestale, si sottolinea come lo stesso non fosse affatto idoneo a dimostrare che gli autisti della (omissis) e il medesimo (omissis) avessero consapevolezza della reale consistenza dei rifiuti trasportati.
Con il terzo motivo, viene lamentata la carenza totale di motivazione in ordine ai criteri di valutazione del contenuto dell’intercettazione telefonica avente quale interlocutore il dr. (omissis), impiegata quale perno logico della pronuncia.
A tal proposito, la difesa deduce che l’interpretazione del contenuto del dialogo intercettato il 26 novembre 2009 tra (omissis) e (omissis), oltre a essere illogica rispetto al reale tenore della conversazione telefonica, era anche inconferente, essendo stato equivocato il contenuto di alcune parole (ad esempio “lotti” in luogo di “(omissis)”) e non essendo stato considerato che la predetta telefonata era partita per errore dall’utenza telefonica del dr. (omissis) e che non vi era alcun elemento oggettivo che potesse solamente far sospettare che i due interlocutori stessero davvero discutendo dei rifiuti conferiti nella (omissis).
Con il quarto motivo, oggetto di doglianza è il fallace apprezzamento della piattaforma probatoria disponibile nel fascicolo processuale, essendo stati ritenuti erroneamente non ricompresi nel predetto fascicolo alcuni documenti decisivi prodotti dalla difesa, volti a dimostrare la reale incidenza della (omissis) nel fatturato della (omissis), ovvero i documenti prodotti dalla difesa innanzi al Tribunale di Pavia all’udienza dell’11 aprile 2013, da cui si desumeva che l’incidenza delle commesse provenienti dalla (omissis), su un volume di affari pari a € 6.320.319,23 nel 2009 e a € 5.115.703,91 nel 2010, risultava nel primo anno solo dell’8,08% e nel secondo del 6,08%, dovendosi peraltro tenere conto del fatto che i trasporti dei rifiuti prodotti dalla (omissis) non erano affatto destinati in via esclusiva alla (omissis); il dato probatorio omesso era qualificabile in termini di decisività, posto che la minima incidenza delle commesse provenienti dalla (omissis) sull’intero fatturato della (omissis) era idonea a scardinare l’intero impianto accusatorio in ordine all’esistenza dell’ingiusto profitto rilevante ai fini della sussistenza del reato e, in particolare, del vantaggio economico che avrebbe percepito l’imputato, tanto più che le tariffe applicate dalla società amministrata da (omissis) erano identiche, sia per i rifiuti con codice CER 191212, sia per quelli con codice CER 191207.
Con il quinto motivo, il ricorrente censura l’omessa motivazione della sentenza rispetto alle ragioni che hanno giustificato il discostamento dalle conclusioni del consulente tecnico della difesa ing. (omissis) e dalla testimonianza di (omissis), autista della (omissis), non avendo la Corte di appello valutato le predette risultanze probatorie, dalle quali si evinceva che l’apprezzamento visivo e organolettico della consistenza dei rifiuti era oggettivamente impedito sia dalla presenza di vasche alte almeno 4 metri, dove erano contenuti i rifiuti, sia dalla sostanziale similitudine delle tipologie di rifiuti.
Con il sesto motivo, la difesa si duole dell’erronea interpretazione degli art. 42 cod. pen. e 260 del d. lgs. 152/2006, avendo ritenuto la Corte di appello di poter desumere la sussistenza dell’elemento psicologico del ricorrente dalla mera posizione apicale ricoperta all’interno della (omissis), trascurando di considerare che il dr. (omissis) era completamente all’oscuro della tipologia dei rifiuti trasportati, per cui il giudizio di colpevolezza doveva ritenersi in contrasto con i principi in tema di responsabilità penale personale, richiedendo la fattispecie contestata non solo la rappresentazione e volizione del fatto antigiuridico, ma anche il fine di conseguire un ingiusto profitto, aspetti questi rivelatisi non adeguatamente comprovati nel caso di specie, anche perché il codice che indicava la tipologia del rifiuto non veniva attribuito dalla (omissis), la quale riceveva i rifiuti per il trasporto già provvisti del codice.
Con il settimo motivo, viene dedotta infine l’assenza di motivazione in ordine alla sussistenza in capo a (omissis) della coscienza e volontà di partecipare a una attività organizzata per il traffico abusivo di rifiuti, rilevandosi che, a parte l’intercettazione del 26 novembre 2009, non vi era alcuna traccia nel compendio probatorio di elementi sintomatici della consapevole partecipazione del ricorrente alla condotta asseritamente illecita posta in essere dai coimputati.
2.3. (omissis), (omissis) e la (omissis) hanno sollevato, in termini sostanzialmente analoghi, un unico motivo, con il quale contestano l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 300 del d. lgs. 152/2006, osservando, con riferimento alla conferma della condanna generica al risarcimento del danno in favore del costituito Ministero dell’Ambiente, che nel caso di specie non vi è stato alcun danno ambientale risarcibile, in quanto un generico “inquinamento atmosferico” non configura un danno ambientale ai sensi dell’art. 300 del d. lgs. 152/2006, delineando la predetta norma una nozione di danno ambientale equivalente a quella contemplata nella diretta europea 2004/35/CE, che non annovera anche l’inquinamento dell’area tra le forme del danno ambientale, inteso come qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata a quest’ultima, dove per risorsa naturale si intendono specie e habitat naturali protetti, acqua e terreno. In ogni caso, i ricorrenti rimarcano l’erroneità del richiamo dei giudici di merito all’art. 311 del d. lgs. 152/2006, trattandosi di norma abrogata nel 2013 che conteneva una definizione di danno ambientale che si rifaceva al vecchio art. 18 della l. 349/1986, mentre la versione attuale della norma contiene un espresso riferimento all’allegato 3 della parte sesta del d. lgs. 152/2016, che richiama unicamente il contenuto delle definizioni di cui all’art. 300 del d. lgs. 152/2016.
2.4 (omissis) e (omissis) , nel loro comune ricorso, hanno sollevato due motivi, il primo dei quali è sovrapponibile a quello avanzato da (omissis), (omissis) e (omissis), censurandosi cioè l’inosservanza dell’art. 300 del d. lgs. 152/2016 rispetto alla qualificazione come danno ambientale dell’inquinamento dell’aria.
Con il secondo motivo, la difesa deduce la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, rilevando che, al fine di ricollegare alla condotta dei ricorrenti il presunto danno ambientale, consistente nell’immissione di sostanze nocive nell’atmosfera a seguito della combustione dei rifiuti, i giudici di merito avrebbero dovuto indicare non solo le sostanze immesse, ma la loro inequivocabile provenienza dalla combustione dei carichi provenienti dall’azienda (omissis), il che non era avvenuto nel caso di specie, risultando del tutto carente sul punto l’apparato motivazionale della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili perché manifestamente infondati.
1. Prima di soffermarsi sui singoli ricorsi, appare utile una pur breve esposizione introduttiva del contesto fattuale in cui si inserisce la presente vicenda processuale. Al riguardo, occorre innanzitutto premettere che le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi per formare un corpus argomentativo unitario, hanno ricostruito i fatti di causa in maniera chiara e puntuale, analizzando con rigore le fonti probatorie acquisite.
In tal senso sono stati richiamati, in primo luogo, gli approfonditi accertamenti della P.G. (in particolare del Corpo Forestale dello Stato) e del consulente tecnico del P.M., ing. (omissis), da cui è emerso che, tra il 1998 e i primi mesi del 2000, all’esito di varie autorizzazioni, veniva creata la (omissis), impegnata nella gestione di un impianto di termovalorizzazione installato al fine di consentire all’adiacente “(omissis), società impegnata nella produzione e lavorazione del riso, di risparmiare sui costi di smaltimento degli scarti derivanti dalla lavorazione del riso, e in particolare della lolla di riso, proveniente, per il 50% dalla (omissis) e, per il resto, da altri impianti.
Orbene, a seguito dello stralcio di un procedimento incardinato presso la Procura della Repubblica di Grosseto, in cui erano emerse presunte irregolarità nella miscelazione dei rifiuti presso la (omissis), veniva avviato per circa 4 mesi un costante sistema di monitoraggio h24 presso l’impianto di coincenerimento, che consentiva di dare un importante impulso alle indagini.
Queste conoscevano uno snodo importante il 6 ottobre 2009, allorquando veniva eseguita una perquisizione all’interno della (omissis) e presso il laboratorio (omissis), dove venivano svolte le analisi chimiche dei rifiuti.
Dall’ampia documentazione acquisita e dai rilievi tecnici dei consulenti del P.M. ing. (omissis), dott. (omissis) e dott. (omissis), correlati alle riprese video, risultava in particolare, per quanto in questa sede rileva, che la lolla di riso veniva miscelata con le polveri di abbattimento fumi generate dall’impianto, polveri che, costituendo rifiuti pericolosi con altissime concentrazioni di metalli pesanti, avrebbero dovuto essere invece smaltite all’esterno, non essendo la (omissis) autorizzata all’autosmaltimento dei rifiuti dell’impianto.
Veniva altresì accertato che anche le ceneri di diversa natura, prima di essere smaltite e conferite presso impianti all’esterno, venivano miscelate tra di loro.
Peraltro, al momento della perquisizione presso l’impianto, veniva controllato un autocarro che trasportava rifiuti provenienti dalla società (omissis), intermediato dalla (omissis), con il codice CER 191207, legno non pericoloso, diverso dal codice CER 191206, ovvero legno pericoloso, mentre dalle analisi eseguite durante le operazioni di scarico risultava che nel materiale trasportato vi erano altissime quantità di componenti estranei, come plastica, vetro, materiale ferroso e altro, miscelato con materiale vegetale.
Dopo la perquisizione del 6 ottobre 2009, la visione dei filmati della telecamera, non subito rimossa dalla P.G., consentiva di accertare un sostanziale cambiamento dei materiali introdotti nell’impianto, che da quel momento consistevano in materiali vegetali, come previsto dalle autorizzazioni, provenienti dalle biomasse e accompagnati dai corretti formulari di trasporto rifiuti.
Quanto invece all’indebita miscelazione della lolla di riso con le polveri di abbattimento, veniva accertato che lo smaltimento di tali polveri costava circa 200 euro a tonnellata, per cui, considerato il quantitativo di polveri non smaltito e miscelato alla lolla di riso, il guadagno della (omissis), derivante dal risparmio sui costi di smaltimento delle polveri di abbattimento fumi, negli anni 2007, 2008 e 2009, veniva calcolato in circa 950-970.000 euro.
Allo stesso modo, mediante anche le deposizioni dei testi (omissis), operatore palista, e (omissis), capo turno impianto dal 2002 al 2009, veniva comprovato che la lolla di riso, arrivata nell’impianto tramite una conduttura di trasporto meccanica (cd. redler) dalla riseria adiacente, veniva miscelata con altri rifiuti; in particolare, la lolla destinata all’incenerimento e la lolla che veniva poi venduta a terzi veniva custodita e stoccata in un unico cumulo nel piazzale, dove veniva miscelata con le polveri di abbattimento fumi, prima di essere prelevata in parte per formare miscela per la combustione nell’impianto, unita a plastica e legno, e in parte per essere caricata sui camion in vista della vendita a terzi, in particolare ad allevamenti o industrie esercenti attività di lavorazione del legno.
Inoltre, oltre che con le polveri di abbattimento fumi, il cumulo di lolla di riso presente sul piazzale della (omissis), da cui si prelevava sia la parte destinata alla vendita, sia quella immessa nel ciclo di combustione dell’impianto, veniva miscelato, seppur in minori quantità, con altri rifiuti, come le terre di spazzamento stradale e le acque reflue dei pozzetti di ispezione dell’impianto.
Oltre a gestire in modo illecito, la (omissis) si procurava un ulteriore ingiusto profitto, quantificato in circa 23 milioni di euro, vendendo come “energia pulita” i rifiuti lavorati presso il suo impianto al Gestore Servizi Elettrici, soggetto pubblico con cui erano stati stipulati contratti per fornitura di energia elettrica, risultando l’energia venduta ben diversa per qualità da quella pattuita.
Quanto all’ascrivibilità dal punto di vista soggettivo delle condotte sin qui descritte, ritenute idonee a integrare a vario titolo i contestati reati di cui agli art. 260 (capi 1 e 2) 258 comma 4 ultimo periodo in relazione all’art. 483 cod. pen. (capo 3), 640 commi 1 e 2 cod. pen. (capo 6) e 356 cod. pen. (capo 7), deve innanzitutto rilevarsi che il Presidente del C.d.A. della (omissis), (omissis), il consigliere delegato e responsabile dell’impianto di coincenerimento della (omissis), (omissis) e il direttore del medesimo impianto, (omissis), hanno definito la posizione a loro carico mediante sentenze di applicazione di pena concordata, ormai irrevocabili.
All’esito dei due gradi di merito, veniva ritenuto comprovato il coinvolgimento altresì di (omissis), impiegata dell’ufficio amministrativo dell’impianto, così come veniva affermata in primo grado, fatta salva la declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione formulata in appello, la responsabilità degli altri imputati coinvolti, ovvero, per quanto rileva in questa sede, (omissis) e (omissis), rispettivamente tecnico responsabile e direttore del laboratorio di analisi chimico-fisiche (omissis), dove venivano formati falsi certificati di analisi sulla composizione dei rifiuti conferiti presso la (omissis); (omissis), legale rappresentante della società (omissis), che trasportava nell’impianto parte dei rifiuti non conformi alle autorizzazioni concesse alla (omissis), rifiuti a sua volta intermediati dalla (omissis), di cui era legale rappresentante (omissis).
Parimenti comprovato è risultato infine il coinvolgimento nella vicenda di (omissis) e (omissis), entrambi quali gestori di fatto dell’impianto di trattamento rifiuti della società (omissis), che conferiva nell’impianto della (omissis), attraverso la intermediazione della (omissis), rifiuti classificabili come altri rifiuti non diversamente recuperabili, provenienti da impianti di trattamento rifiuti di cui al codice CER 191212, dichiarando falsamente nei relativi formulari il codice CER 191207, ovvero “legno diverso da quello di cui alla voce 191206”, ciò al fine di eludere le verifiche chimico-fisiche sulla reale composizione dei rifiuti imposte, per quelli avente codice CER 191212, dall’allegato A dell’autorizzazione rilasciata dalla Regione Lombardia in favore di (omissis) con decreto n. 12657 del 2007.
Operata questa sintetica ma necessaria premessa introduttiva sulla vicenda oggetto di causa, è ora possibile procedere alla disamina degli odierni ricorsi.
1. Iniziando dalla posizione di (omissis), deve escludersi, partendo dal primo motivo, che la qualificazione giuridica della lolla di riso come rifiuto, invece che come sottoprodotto, presti il fianco alle censure difensive.
Al riguardo occorre evidenziare che la Corte territoriale ha opportunamente ricordato che la lolla di riso, con il D.M. 5 febbraio 1998, era stata classificata tra i rifiuti non pericolosi, con attribuzione del codice C.E.R. 020304 (scarti inutilizzabili per il consumo o la trasformazione), prevedendosi come attività di recupero la produzione di lettiere per allevamenti zootecnici.
La legge n. 308/2004 (art. 31) ha poi autorizzato il Ministro dell’Ambiente ad apportare modifiche al D.M. 5 febbraio 1998, volte a consentire il riutilizzo della lolla di riso, affinché non fosse considerata come rifiuto derivante dalla produzione dell’industria agroalimentare e, in effetti, con il D.M. 2 maggio 2006, è stata prevista la definitiva cancellazione della lolla di riso dal D.M. 5 febbraio 1998, per cui la stessa non è più classificata come rifiuto.
Ciò, tuttavia, non significa che la lolla di riso non possa in assoluto essere più qualificata come rifiuto, posto che l’eliminazione dal D.M. è connessa all’attività di recupero ivi originariamente indicata (produzione di lettiere per allevamenti zootecnici), il che non esclude la necessità di riconsiderare la qualificazione della lolla di riso, ove la stessa sia destinata a una diversa attività, quale appunto può essere l’utilizzo come combustibile in impianti di coincenerimento.
In quest’ottica, nel porsi la questione se la lolla di riso dovesse considerarsi un rifiuto o un sottoprodotto, correttamente i giudici di appello hanno escluso l’inquadramento del predetto materiale nella categoria dei sottoprodotti (e ciò a prescindere dal fatto che il regime derogatorio dei sottoprodotti sia stato introdotto alla fine del 2010, dunque in epoca successiva ai fatti di causa).
Sul punto è necessario premettere che, secondo l’orientamento di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 33028 dell’01/07/2015, Rv. 264203), la categoria dei sottoprodotti, originariamente non contemplata dalla disciplina di settore, lo è poi diventata con l’art. 184 bis del d. lgs. n. 152 del 2006 (introdotto dal d.lgs. n. 205 del 3 dicembre 2010) ed è definita dall’art. 183, lettera qq) del medesimo d. lgs., il quale si riferisce a “qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all’art. 184 bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all’art. 184 bis, comma 2”. L’art. 184 bis, a sua volta, stabilisce che è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni:
Ciò posto, ribadito che la normativa sopra richiamata è stata introdotta dopo l’epoca di consumazione dei reati contestati, deve in ogni caso ritenersi che legittimamente i giudici di merito abbiano escluso la possibilità di qualificare come sottoprodotto la lolla di riso, posto che quest’ultima, materiale di scarto prodotto da (omissis), non aveva un impiego certo sin dalla fase della sua produzione e comunque il suo processo di utilizzazione non era definito in via preventiva, posto che l’unico utilizzo individuato preventivamente era quello di essere destinato all’impianto di coincenerimento della (omissis), con cui era stato stipulato un contratto di cessione esclusiva, mentre di fatto la lolla di riso, proveniente da un’altra società, è stata invece gestita illegalmente, senza che l’impianto di termovalorizzazione della (omissis) avesse i necessari requisiti produttivi e gestionali e non essendo stata osservata la sua unica destinazione al coincenerimento, posto che la stessa veniva destinata anche agli allevamenti zootecnici, con modalità connotate da gravi irregolarità.
Infatti, come accertato all’esito di un costante monitoraggio, presso il piazzale di stoccaggio della (omissis) venivano scaricati rifiuti di ogni tipo, anche direttamente sul cumulo della lolla di riso, venendo immediatamente rimestati mediante pale meccaniche, fino a quando altri camion non caricavano la lolla di riso estraendola dallo stesso cumulo dove in precedenza erano stati versati e miscelati i rifiuti, trasportandola presso i siti delle ditte che avevano acquistato la lolla a vari scopi dalla (omissis), peraltro dopo che la lolla di riso si era miscelata con ceneri e polveri provenienti dall’inceneritore (trasportate con benna e big bags), terre di spazzamento stradale, acque reflue provenienti dalla disinfezione e dal prosciugamento dei tombini e da collettori di scolo, oltre che con gli altri rifiuti i conferiti dall’esterno o movimentati dalla stessa azienda.
L’indiscriminata miscelazione della lolla di riso con rifiuti di ogni genere ne alterava dunque la matrice originaria, trasformandola in rifiuto, pericoloso o non pericoloso a seconda della natura del rifiuto con cui veniva ogni volta mischiata.
Alla luce degli accertamenti fattuali compiuti dai giudici di merito, non suscettibili di essere messi in discussione in questa sede, in assenza peraltro di specifiche contestazioni difensive, deve ritenersi senz’altro legittima l’esclusione della lolla di riso dalla categoria dei sottoprodotti, tanto più ove si consideri che tale regime normativo presenta natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, con la conseguenza che l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l’applicazione, il che nel caso di specie non può certo ritenersi avvenuto.
2.1. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
Ed invero, nel replicare alle obiezioni difensive circa l’asserita inosservanza dell’art. 360 cod. proc. pen. e 220 disp. att. cod. proc. pen., la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che la consulenza disposta dal P.M. in occasione della perquisizione del 6 ottobre 2009 non costituiva un accertamento tecnico irripetibile, in quanto i campioni prelevati ai fini delle analisi richieste erano stati conservati nel tempo con le loro intrinseche caratteristiche e potevano essere sottoposti a nuovo esame, per cui l’attività svolta, rientrando nello schema dell’art. 359 cod. proc. pen., non richiedeva il coinvolgimento partecipativo dei difensori, non essendo disponibili elementi per smentire il presupposto fattuale della decisione dei giudici di merito, ovvero la ripetibilità delle verifiche tecniche.
Quanto all’ulteriore problematica della dedotta inutilizzabilità degli esiti degli accertamenti effettuati dai consulenti per l’inosservanza delle procedure e dei metodi di cui alla norma Uni 10802, è sufficiente in questa sede richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (Sez. 3, n. 1987 dell’08/10/2014, Rv. 261786), secondo cui, in tema di gestione di rifiuti, l’accertamento della pericolosità di un rifiuto non richiede necessariamente il rispetto delle metodiche di campionamento e di analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802 (richiamata dall’art. 8 del D.M. 5 febbraio 1998), trattandosi di un insieme di disposizioni prive di portata generale vincolante, dirette unicamente allo scopo di disciplinare le analisi effettuate a cura del titolare dell’impianto di produzione dei rifiuti.
2.2 Passando al terzo motivo di ricorso della (omissis), con cui è stata censurata la violazione dell’art. 603 cod. proc. pen., occorre evidenziare che il diniego da parte della Corte di appello della richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale mediante l’espletamento di una perizia sui materiali sequestrati, sebbene non motivato, non può per ciò solo ritenersi illegittimo.
Al riguardo, deve ribadirsi che, come già affermato da questa Corte (cfr. in particolare Sez. 3, n. 47963 del 13/09/2016, Rv. 268656), la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale regolata dall’art. 603 cod. proc. pen., si struttura in tre ipotesi: la prima, subordinata alla richiesta di parte e disposta solo se il giudice di appello ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, si configura con riguardo alla riassunzione di prove già acquisite o all’assunzione di prove nuove, preesistenti e conosciute (art, 603, comma 1, cod. proc. pen., cd. rinnovazione facoltativa); la seconda, ugualmente subordinata alla richiesta di parte, ma in questo caso soggetta ai soli limiti di manifesta superfluità o irrilevanza o di divieto di legge, è prevista con riferimento alle prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado (art. 603, comma 2, in combinato disposto con gli art. 495, comma 1, e 190, comma 1, cod. proc. pen., cd. rinnovazione obbligatoria); la terza, infine, costituisce espressione di un potere officioso del giudice di appello, analogo a quello del giudice di primo grado (art. 507 cod. proc. pen.), nel caso di valutazione di assoluta necessità ai fini della decisione (art. 603, comma 3, cd. rinnovazione ex officio).
La giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 1, n. 50893 del 12/11/2014, Rv. 261483) ha poi precisato che le due ipotesi di rinnovazione a istanza di parte devono diversificarsi anche sotto il profilo temporale della proposizione della relativa richiesta: quando l’iniziativa è assunta dall’appellante, l’art. 603 comma 1 cod. proc. pen. prevede infatti che la richiesta di rinnovazione istruttoria dibattimentale, accompagnata dalle prove di cui si chiede l’ammissione, sia con riferimento alla riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado, sia in relazione alla assunzione di prove nuove, debba essere avanzata nell’atto di appello o nei motivi aggiunti ex art. 585 comma 4 cod. proc. pen., mentre, nel caso della istanza di cui all’art. 603 comma 2 cod. proc. pen., avente ad oggetto prove “sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado”, non opera la preclusione derivante dalla mancata indicazione nei motivi di appello o dalla scadenza del termine stabilito dall’art. 585 comma 4 cod. proc. pen.
Deve poi aggiungersi che l’obbligo di motivazione a carico del giudice di appello si conforma diversamente, a seconda che l’istanza della parte sia avanzata ex art 603 comma 1 cod. proc. pen., ovvero ex art. 603 comma 2 cod. proc. pen.
Costituisce infatti affermazione costante di questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 47095 del 02/12/2009, Rv.245996) quella secondo cui il giudice d’appello ha l’obbligo di disporre la rinnovazione del dibattimento solo quando la richiesta della parte sia riconducibile alla violazione del diritto alla prova, non esercitato non per inerzia colpevole, ma per forza maggiore o per la sopravvenienza della prova dopo il giudizio, o quando la sua ammissione sia stata irragionevolmente negata dal giudice di primo grado. In tutti gli altri casi, la rinnovazione del dibattimento è rimessa al potere discrezionale del giudice, il quale è tenuto a dar conto della sufficiente consistenza e della assorbente concludenza delle prove già acquisite.
Pertanto, nel caso dell’istanza di cui all’art. 603 comma 1 cod. proc. pen., la rinnovazione deve essere specificamente motivata, mentre, in caso di rigetto, la relativa motivazione può essere anche implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento; diversamente, quanto all’istanza ex art. 603 comma 2 cod. proc. pen., fermo il potere - dovere del giudice di verifica tracciato dal combinato disposto degli art. 190 comma 1 e 495 cod. proc. pen., l’ammissione della prova è doverosa negli stessi termini di cui all’art. 495 comma 1, richiamato dall’art. 603 comma 2, e comprende anche quello di ammettere la prova contraria secondo quanto previsto dall’art. 495, comma 2, stesso codice.
In definitiva, deve concludersi che la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in caso di riassunzione di prove già acquisite in primo grado o di prove nuove, concetto nel quale deve farsi rientrare anche la perizia “esplorativa” sollecitata in appello, si connota quale evenienza eccezionale, per cui in tale caso non è indispensabile un esplicito obbligo motivazionale, essendo l’istanza volta alla verifica successiva della completezza di un quadro probatorio già assunto.
Ciò posto, deve quindi escludersi che il difetto motivazionale sul diniego della richiesta difensiva di disporre una perizia in appello si qualifichi come illegittimo, posto che la Corte territoriale ha più volte rimarcato la completezza e univocità del quadro istruttorio delineatosi in primo grado, ritenendo in tal modo implicitamente superfluo l’approfondimento istruttorio in questione, che peraltro è stato sì sollecitato con l’atto di appello, ma non in maniera adeguatamente specifica. Di qui la manifesta infondatezza della richiesta difensiva.
2.3. Venendo infine al quarto motivo di ricorso, deve osservarsi che parimenti risulta immune da censure la formulazione del giudizio di colpevolezza dell’imputata in ordine ai reati a lei addebitati ai capi 1, 2, 6 e 7 della rubrica (essendo stato dichiarato estinto per prescrizione in appello solo il primo reato).
Al riguardo, deve infatti osservarsi che, all’esito di una puntuale e razionale disamina delle risultanze probatorie raccolte, i giudici di merito hanno accertato come la (omissis), al di là della sua veste formale di impiegata dell’ufficio amministrativo della (omissis), in realtà era capace di coordinare i flussi di lolla di riso in uscita e i rifiuti in ingresso, avendo sul punto autonomia gestionale ed essendo altresì consapevole del fatto che la lolla in uscita dall’impianto di coincenerimento fosse contaminata con rifiuti di altro genere.
Tale conclusione è stata fondata in primo luogo sulle dichiarazioni dei testi (omissis) e (omissis), i quali hanno confermato che era la (omissis) (insieme a (omissis)) a tenere i rapporti con gli acquirenti della lolla di riso e con i fornitori dei rifiuti, occupandosi anche dei relativi contratti e predisponendo altresì la programmazione dei rifiuti in entrata, divisi per categoria e quantità, agendo in sinergia con l’ing. (omissis), che stabiliva i prezzi, ma con ampi margini operativi, ad esempio potendo prendere accordi sul numero dei carichi che potevano entrare nell’impianto o sui giorni di consegna della lolla di riso.
Del resto, la (omissis) partecipava anche alle riunioni dei Comitato di direzione, unitamente, tra gli altri, al Presidente della (omissis), (omissis), e appunto all’ing. (omissis), in veste di amministratore delegato.
La definitiva conferma del consapevole contributo arrecato dalla ricorrente al traffico illecito dei rifiuti e alle condotte truffaldine poste in essere nei confronti del Gestore dei servizi elettrici, cui è stata venduta energia qualitativamente diversa da quella concordata, è inoltre stata desunta dal tenore di non poche conversazioni intercettate (progr. 52 e 54 del 30 settembre 2009, 403 e 413 del 1° ottobre 2009, 478 e 483 del 2 ottobre 2009, 897 del 5 ottobre 2009, 2685 del 7 ottobre 2009, 3166 del 7 novembre 2009, 4817 del 9 novembre 2009 e 330 del 18 novembre 2010), riportate per esteso nella sentenza di primo grado, da cui si evince sia che la (omissis) aveva una riconosciuta autonomia decisionale nella gestione dei rifiuti, sia che la stessa era perfettamente a conoscenza del fatto che nella lolla di riso trattata dalla (omissis) e destinata agli allevamenti erano miscelate sostanze pericolose (significativa tra le tante la frase pronunciata dall’imputata “non vorrei rischiare di farle morire tutte le bestie”).
In definitiva, il giudizio di colpevolezza dell’odierna ricorrente, nei termini del suo contributo consapevole alle attività illecite cristallizzate nelle imputazioni, risulta fondato su una pluralità di elementi probatori attentamente esaminati e logicamente messi in correlazione tra loro, esaurendosi le censure difensive in una rilettura del materiale istruttorio e del ruolo dell’imputata non consentita in questa sede, anche affidata a dati fattuali desunti da uno scrutinio frammentario delle molteplici fonti dimostrative apprezzate nelle due sentenze di merito.
Né infine appare dirimente la circostanza che i contratti con il gestore dei servizi energetici risalgono al 2002 e al 2004, contestandosi all’imputata di aver fornito il suo apporto illecito non al momento genetico delle pattuizioni contrattuali, di per sé legittime, ma a quello esecutivo, collocandosi peraltro le condotte fraudolenti contestate in una fase storica in cui l’imputata aveva ormai assunto un ruolo decisionale ben definito nell’ambito dell’organizzazione aziendale.
Ne consegue che il ricorso della (omissis) deve essere ritenuto manifestamente infondato e dunque inammissibile.
3. Passando al ricorso proposto nell’interesse di (omissis) e iniziando dal primo motivo, occorre evidenziare che la doglianza sull’asserita inosservanza dell’art. 500 comma 2 cod. proc. pen. risulta inammissibile, rivelando sul punto il ricorso seri limiti di autosufficienza, in quanto l’allegazione della fonoregistrazione della deposizione del teste (omissis), nell’ambito della quale sarebbe avvenuta la contestazione delle dichiarazioni investigative non confermate dal dichiarante, risulta incompleta, essendo presenti solo le pagine 45, 48, 50, 51 e 54, per cui, essendo rimasti sospesi molti passaggi della testimonianza, non è possibile cogliere l’effettivo e intero sviluppo della deposizione, fermo restando che, rispondendo all’obiezione difensiva, la Corte di appello ha evidenziato che la sentenza di primo grado aveva analizzato anche le contestazioni in aiuto alla memoria fatte ai testimoni, senza porle a fondamento della decisione se prive di conferma, ma al più utilizzandole per evidenziare la scarsa credibilità di costoro.
E in effetti tale affermazione trova pieno riscontro nella motivazione della decisione di primo grado che, proprio con riferimento alla disamina della deposizione del teste (omissis), riporta testualmente (pag. 19, 20, 28, 29, 35, 38 e 39) i soli passaggi in cui il dichiarante ha confermato il contenuto delle contestazioni, senza menzionare affatto le affermazioni investigative in ordine alle quali il teste ha manifestato in dibattimento ricordi non chiari e precisi.
3.1 Inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso, con cui viene dedotto il travisamento di una serie di prove dichiarative e documentali da parte dei giudici di merito, in particolare delle deposizioni dei testi (omissis) e (omissis), della consulenza tecnica dei dottori (omissis), (omissis) e (omissis) e del prospetto dei rifiuti redatto dal Corpo forestale dello Stato.
Al riguardo, occorre infatti richiamare la costante affermazione di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, Rv. 269217 e Sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017, Rv. 269906), secondo cui, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado.
Tale presupposto non appare ravvisabile nel caso di specie, dovendosi rilevare invero che le deduzioni difensive risultano fondate su una lettura parcellizzata del materiale probatorio raccolto, la cui disamina è stata operata in primo e secondo grado in modo rigoroso e convergente, sia rispetto alle testimonianze dei dipendenti della (omissis) (omissis) e (omissis), che hanno descritto le modalità di lavorazione della lolla di riso, sia in ordine agli accertamenti compiuti dai consulenti del P.M. sulla qualità chimico-fisica dei materiali in entrata e in uscita dall’impianto, sul funzionamento generale del termovalorizzatore, e sul rapporto tra la potenzialità annuale dell’impianto e il calcolo del quantitativo di polveri di abbattimento fumi, sia infine in relazione agli elenchi predisposti dal Corpo forestale dello Stato, che per ogni giorno indicavano il produttore, il trasportatore, gli intermediari e i codici dei rifiuti, inserendosi questo ulteriore elemento documentale in un contesto probatorio già di per sé solido e coerente.
Ne consegue che la doglianza difensiva deve essere ritenuta inammissibile, tanto più ove si consideri che anche sul punto il ricorso sconta ancor più evidenti limiti di autosufficienza, non risultando allegati gli atti di cui si assume il travisamento.
3.2. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche rispetto al terzo motivo del ricorso di (omissis), con il quale viene lamentata l’erronea interpretazione da parte dei giudici di merito del contenuto della conversazione telefonica intercorsa il 26 novembre 2009 tra gli imputati (omissis) e (omissis).
Al riguardo, premesso che nel caso di specie si contesta non il travisamento ma la non condivisa interpretazione del dialogo intercettato, deve evidenziarsi che, come già chiarito più volte dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 6722 del 21/11/2017, Rv. 272558), in sede di legittimità, è possibile prospettare un’interpretazione del significato di un'intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza di travisamento della prova, ossia nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva e incontestabile.
Alla luce di tale premessa ermeneutica, va quindi rimarcata la manifesta infondatezza della doglianza difensiva, che come detto si limita a censurare la lettura data alla conversazione intercettata, senza contestarne il travisamento, che in effetti non vi è stato, avendo in particolare la sentenza di primo grado riportato fedelmente il testo della telefonata in questione (pag. 188, 189 e 190), valutandola legittimamente alla luce del restante materiale probatorio acquisito e dando comunque atto che, all’esito del dibattimento, la frase pronunciata da (omissis) e trascritta come “smaltimento a (omissis)” è risultata essere “smaltimento a lotti”, per cui anche sotto tale profilo alcun travisamento appare prospettabile.
3.3. I restanti motivi del ricorso di (omissis) possono essere affrontati contestualmente, concernendo gli stessi, sotto profili diversi ma tra loro sovrapponibili, il giudizio sulla responsabilità del ricorrente in ordine al reato ascrittogli, giudizio che tuttavia non presta il fianco alle obiezioni difensive.
Ed invero, sia il Tribunale che la Corte di appello, nella disamina del capo B, relativo al traffico illecito di rifiuti riconducibili ai carichi provenienti dalla (omissis), hanno evidenziato che quest’ultima società era uno dei principali conferitori di rifiuti presso la (omissis) (circa 11.000 tonnellate di rifiuti nel triennio 2007-2009), con riferimento a due tipologie in particolare: quelli con C.E.R. 191207, ovvero legno proveniente da impianti di trattamento rifiuti in partenza non pericoloso, e, in quantità più esigua, quelli con C.E.R. 191212, altri rifiuti provenienti da impianto di trattamento meccanico di rifiuti.
Tali rifiuti venivano intermediati dalla (omissis), amministrata da (omissis), che si avvaleva per il trasporto anche della società (omissis), di cui era legale rappresentante il ricorrente (omissis).
In realtà, come emerso dalle verifiche tecniche e dagli accertamenti di P.G., i carichi trasportati con il codice C.E.R. 191207 non contenevano legno non pericoloso corrispondente al predetto codice, ma altro materiale, tra cui plastica, vetro e ferro, come accertato in occasione del sopralluogo del 6 ottobre 2009.
Orbene, premesso che tale ricostruzione della vicenda non è contestata, deve evidenziarsi che, quanto alla consapevolezza da parte di (omissis) dell’attività svolta dalla sua società, i giudici di merito hanno valorizzato la conversazione telefonica occorsa il 26 novembre 2009, allorquando, dialogando con (omissis) (peraltro a seguito di un contatto telefonico casuale), (omissis) mostra chiaramente di essere a conoscenza del fatto che i rifiuti conferiti nella (omissis) eludevano le necessarie analisi sul C.E.R. 191212, avendo come detto il Giudice di primo grado, al pari della Corte di appello, preso atto della correzione della frase “smaltimento a (omissis)” in “smaltimento a lotti”, evidenziando che tale puntualizzazione non smentiva tuttavia il senso complessivo del discorso, posto che anzi tale affermazione, inserita nel contesto della conversazione, consentiva di cogliere la percepita rilevanza economica di questo tipo di smaltimento per tutti gli operatori, compresi gli intermediari e i trasportatori, con conseguente interesse di costoro a mantenere le commesse che dipendevano a monte dai costi del produttore (la (omissis) appunto), che conseguiva un risparmio significativo eludendo le analisi sui rifiuti con codice C.E.R. 121207 legate alla quantità.
Del resto, la lettura unitaria delle deposizioni dei dipendenti della (omissis) (omissis), (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) consentiva di confermare la diretta percezione da parte di tutti gli operatori della effettiva consistenza merceologica dei rifiuti introdotti dalla (omissis) come C.E.R. 191207, nei quali vi erano notevole quantità di materiali estranei (vetro, plastica e altro).
In quanto aderente alle fonti dimostrative acquisite e sorretta da argomentazioni non illogiche, la motivazione delle decisioni di merito non soccombe al cospetto alle censure difensive, che invero appaiono disancorate da una doverosa visione di insieme del compendio probatorio veicolato nel fascicolo processuale.
È il caso, ad esempio, della doglianza formulata nel quarto motivo di ricorso, con cui si contesta l’affermazione della Corte di appello secondo cui non esisterebbe riscontro documentale circa l’effettivo fatturato della (omissis) in relazione al rapporto commerciale tra quest’ultima società e la (omissis).
Ora, se è vero che l’affermazione dei giudici di secondo grado sembra in parte contraddetta dalla produzione documentale della difesa, che, seppur riferita a un’epoca (2008-2010) non perfettamente coincidente con quella contestata (2007-2009) e sebbene priva di un riepilogo finale, pare attestare effettivamente che i rapporti commerciali con la (omissis) rappresentavano una parte esigua del fatturato della società di (omissis) (quantificato dalla difesa nell’8,08 % nel 2009 e nel 6,08% nel 2010), è altrettanto vero che tale circostanza non appare di per sé dirimente, ove si consideri, da un lato, che gli importi delle operazioni commerciali con la (omissis), in sé considerati, non si palesano affatto trascurabili dal punto di vista economico e, dall’altro lato, che risultano provati nel periodo di osservazione ben 189 trasporti illeciti da parte della (omissis) presso la (omissis) e che, come riferito dall’operante (omissis) all’esito di verifiche dirette, buona parte dei flussi della (omissis) nell’impianto venivano eseguiti proprio attraverso i mezzi della società di trasporti amministrata dal ricorrente.
Né appare fondata l’ulteriore doglianza difensiva (motivo 5), con cui si censura il difetto di motivazione in ordine al mancato recepimento delle conclusioni del consulente tecnico della difesa, ing. (omissis), e della deposizione del teste (omissis), autista della (omissis), dovendosi al contrario rilevare che i giudici di merito non hanno affatto ignorato le prove addotte dalla difesa, ma ne hanno valutato con rigore la portata e l’effettivo spessore dimostrativo.
Ed invero, quanto alla deposizione del teste (omissis), è stato osservato che questi aveva sostanzialmente finito con il confermare sia che per un trasportatore che opera nel settore dei rifiuti era agevole conoscere la differenza tra il codice CER 191212 e il codice CER 191207, sia che i trasportatori, quando arrivavano presso la sede della (omissis), scaricavano nel piazzale, vedendo chiaramente cosa era stato trasportato dalla (omissis), sia ancora che nei trasporti con codice C.E.R. 191207 non potevano esserci né rifiuti ingombranti, perché stoccati solo all’entrata della (omissis), né metalli, come invece avveniva per i rifiuti conferiti presso l’impianto de quo.
Quanto alla consulenza tecnica dell’ing. (omissis), secondo cui il trasportatore non poteva percepire dal punto di vista organolettico la differenza tra i codici CER 191207 e CER 191212, le sentenze di merito (e in particolare quella di primo grado, richiamata sul punto da quella di appello), hanno replicato richiamando la deposizione del teste (omissis), dipendente della (omissis), secondo cui il legno, la plastica, il metallo e gli scarti venivano tenuti in baie distanti e separate, per cui nemmeno accidentalmente i rifiuti con C.E.R. 191212 potevano confluire in quelli con C.E.R. 191207, essendovi cioè piena consapevolezza da parte dei trasportatori sulla promiscuità dei materiali trasportati, anche perché i carichi trasferiti non contenevano qualche pezzo sminuzzato di plastica, ma materiali di varia natura, tra cui, in taluni casi, addirittura materassi e metalli.
Ciononostante, venivano effettuati trasporti presso l’impianto della (omissis) indicando nel documento di trasporto il C.E.R. 191207, anziché quello reale 191212, per eludere le analisi su questi rifiuti, per cui, sebbene i trasporti costassero in maniera uguale a prescindere dalla tipologia dei rifiuti trasportati, vi era un risparmio di spese sulle analisi che incideva sui costi aziendali.
Di qui la ragionevole conclusione della consapevole adesione da parte del legale rappresentante della (omissis) al traffico illecito dei rifiuti, e ciò anche alla luce del tenore della conversazione intercorsa tra l’imputato e (omissis), da cui emerge la conoscenza da parte del ricorrente del meccanismo volto a conseguire un risparmio di spesa da parte degli operatori coinvolti nel settore, rilevando il contenuto del dialogo e non certo la natura occasionale del contatto telefonico.
A fronte di un apparato argomentativo privo di elementi di illogicità, la difesa propone nel ricorso una lettura alternativa (e invero frammentaria) del materiale probatorio, che tuttavia non può ritenersi consentita in questa sede, anche perché già adeguatamente affrontata e superata nei gradi di merito.
Ne consegue anche il ricorso di (omissis) deve essere dichiarato inammissibile.
4. Possono essere infine trattati congiuntamente i ricorsi degli imputati (omissis), (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis), i cui motivi, in termini sostanzialmente sovrapponibili, censurano l’erronea applicazione dell’art. 300 del d. lgs. 152/2006, contestando la condanna al risarcimento del danno in favore del Ministero dell’Ambiente, in base all’assunto secondo cui l’inquinamento dell’aria non costituirebbe un danno ambientale, in base all’art. 2 punto 1 della direttiva europea 2004/35, recepita dal vigente testo unico ambientale.
Orbene, anche sul punto le decisioni di merito resistono alle censure difensive.
Ed invero sia il Tribunale che la Corte di appello hanno individuato la fonte dell’obbligo risarcitorio nella prolungata immissione nell’ambiente di sostanze inquinanti, con conseguente pregiudizio alla salubrità dell’ambiente, derivante dalla illecita combustione di rifiuti con caratteristiche non conformi a quelle autorizzate, senza verifica dei parametri, venendo in particolare la lolla di riso miscelata con terre di spazzamento delle strade e reflui dei pozzetti di ispezione, con conseguente immissione nell’aria dei relativi composti chimici.
Esclusa ai sensi dell’art. 311 del d. lgs. 152/2006 l’applicazione di misure diverse da quelle compensantive, non essendo cioè possibile il ripristino, è stato dunque riconosciuto il risarcimento del danno in favore del Ministero dell’ambiente, ritenendosi ravvisabile un “danno ambientale” ex art. 300 del d. lgs. 152/2006.
Tale impostazione deve ritenersi senz’altro corretta, dovendosi evidenziare che il comma 1 dell’art. 300 del d. lgs. 152/2006 qualifica testualmente come danno ambientale “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”.
È invero già sufficiente fare riferimento a questa chiara definizione normativa per superare l’affermazione difensiva secondo cui l’inquinamento dell’aria non costituisce nel nostro ordinamento un danno ambientale, non essendovi dubbio sul fatto che l’aria costituisce una “risorsa naturale”, essendone anzi una delle più importanti, se non la più importante, per ogni essere animale e vegetale.
Non appare quindi dirimente il fatto che il comma 2 dell’art. 300, nel precisare che costituisce danno ambientale ai sensi della direttiva 2004/35/CE qualsiasi deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato a una serie di elementi naturali, non contenga alcun riferimento all’aria, ma soltanto alle specie e agli habitat protetti, alle acque (interne, marine e costiere) e al terreno.
Si tratta infatti di una specificazione che non vale certo a escludere l’aria dal novero delle risorse naturali menzionate al comma 1 dell’art. 300, ma che si limita unicamente a individuare una varietà di possibili danni che non esaurisce tuttavia la casistica delle ipotesi di danno ambientale suscettibili di rientrare nell’ampia definizione normativa riferita al “deterioramento” delle “risorse naturali”, dovendosi unicamente precisare che quest’ultimo è destinato ad assumere rilievo solo ove lo stesso si riveli “significativo e misurabile”, aspetti questi che invero nel caso di specie non risultano oggetto di contestazione.
Né può sottacersi, del resto, che la parte quinta del d. lgs. n. 152/2006 (art. 267 ss.) recante “norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera”, contiene disposizioni volte a prevenire e reprimere l’inquinamento atmosferico, definito dall’art. 268 comma 1 lett. a) come “ogni modificazione dell’aria atmosferica, dovuta all’introduzione nella stessa di una o più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per la salute umana o per le qualità dell’ambiente, oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell’ambiente”, definizione questa che conferma ulteriormente l’immanenza e l’evidenza del legame esistente tra aria e ambiente.
D’altronde, la produzione normativa europea non contiene indicazioni di segno contrario: deve infatti evidenziarsi che al punto 4 dei “considerando” della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004, recepita dal d. lgs. 152/2006, è stato affermato che il danno ambientale include altresì il danno causato da elementi aerodispersi, nella misura in cui possono causare danni all’acqua, al terreno e alle specie e agli habitat naturali protetti, per cui non manca neanche nella direttiva un riferimento all’aria che, come detto, deve ritenersi insito nel citato richiamo alla nozione di risorse naturali, il cui deterioramento, “significativo e misurabile”, concretizza il danno ambientale.
Né appare pertinente il richiamo difensivo alla sentenza della Corte di giustizia (Seconda Sezione) del 13 luglio 2017, pronunciata nella causa C-129/16, relativa a un’ipotesi di inquinamento dell’aria verificatosi in Ungheria a causa di un incenerimento illegale di rifiuti, posto che dalla lettura della sentenza emerge che la domanda di pronuncia pregiudiziale verteva su una questione diversa da quelle oggetto di causa, ovvero la possibilità di una normativa nazionale di identificare, come responsabili in solido in caso di inquinamento e come destinatari di un’ammenda, non solo gli utilizzatori dei fondi in cui ha avuto origine l’inquinamento, ma anche i proprietari dei fondi, senza dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra la loro condotta e l’inquinamento illecito.
Piuttosto, è ben più significativo che la predetta sentenza della Corte di giustizia non abbia messo in discussione la possibilità di ravvisare il danno ambientale nell’inquinamento dell’area derivante dal un trattamento illegale di rifiuti, ciò in coerenza con lo spirito stesso della direttiva, volta ad ampliare, anche attraverso i meccanismi riparatori ivi previsti, le forme di tutela in materia ambientale.
Ribadito che l’inquinamento dell’aria, ove “significativo e misurabile”, rientra nella nozione di danno ambientale ex art. 300 del d. lgs. 152/2006, deve quindi escludersi che la sentenza presenti, in ordine alle statuizioni civili, vizi rilevabili in questa sede, stante la pacifica legittimazione attiva del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare a far valere la pretesa risarcitoria per il deterioramento dell’area originato dalla condotta illecita degli imputati.
Tale legittimazione trova allo stato il suo fondamento normativo nell’art. 311 comma 1 del d. lgs. 152/2006, norma la cui conformità alla Costituzione è stata ribadita con la sentenza n. 126 del 19 aprile 2016, depositata il 1° giugno 2016, con cui la Corte costituzionale ha affermato la coerenza della scelta legislativa di riservare a un ente statale la tutela di un «bene immateriale unitario» come l’ambiente, il che peraltro non esclude la legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, ma dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale.
Quanto poi alla carenza motivazionale dedotta dalla difesa degli imputati (omissis) e (omissis) circa la provenienza delle sostanze nocive immesse dall’ambiente dai carichi provenienti dall’azienda (omissis), occorre evidenziare che tale censura presuppone una verifica fattuale che invero risulta adeguatamente compiuta in sede di merito, dove è stato accertato che i carichi di rifiuti illegali provenienti della (omissis) e trasportati nell’impianto dalla (omissis) con l’intermediazione della società di (omissis), erano tutt’altro che trascurabili, per cui la riconducibilità del conseguente inquinamento dell’aria anche alla condotta illecita degli imputati è scaturita non da mere asserzioni, ma da una razionale considerazione delle risultanze probatorie, peraltro non smentite in questa sede.
Di qui il giudizio di manifesta infondatezza delle censure difensive.
5. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, i ricorsi devono essere dichiarato inammissibili, con conseguente onere per ciascun ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento, nonché di provvedere, in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, in persona del Ministro pro tempore, liquidate come da dispositivo.
Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende, nonché, in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, in persona del Ministro pro tempore, che liquida in complessivi € 3.000, oltre ad accessori di legge.
Così deciso il 03/07/2018
1. (omissis), tramite i rispettivi difensori, hanno proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza del 17 luglio 2017, con cui la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza resa il 15 gennaio 2016 dal Tribunale di Pavia, ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di (omissis) in ordine ai reati di cui agli art. 260 e 258 comma 4 ultimo periodo del d.lgs. 152/2006 in relazione all’art. 483 cod. pen., a loro rispettivamente ascritti.
Quanto alla (omissis), la Corte di appello ha dichiarato non doversi procedere in ordine al reato di cui all’art. 260 del d. lgs. 152/2006 ascrittole al capo 1, confermando invece la condanna in primo grado rispetto agli ulteriori reati di cui agli art. 260 del d. lgs. 152/2006 (capo 2), 640 commi 1 e 2 cod. pen. (capo 6) e 356 cod. pen. (capo 7), rideterminando la pena finale in mesi 10 di reclusione.
La Corte territoriale, inoltre, revocava la provvisionale disposta in primo grado in favore della costituita parte civile, Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, confermando la statuizione di primo relativamente al risarcimento del danno in suo favore, da liquidare in separata sede (venendo altresì ridimensionati gli importi liquidati in favore delle ulteriori parti civili).
In sintesi, il nucleo essenziale delle varie contestazioni elevate a carico degli imputati concerne le attività svolte presso l’impianto di coincenerimento denominato (omissis), creata alla fine degli anni novanta al fine di consentire alla (omissis), società impegnata nella produzione e nella lavorazione del riso, di risparmiare sui costi di smaltimento degli scarti derivanti dalla lavorazione del riso, producendo contestualmente energia; nel corso degli anni, in base a specifiche convenzioni stipulate con varie società, l’attività della (omissis) si concretizzava, in particolare, nella cessione a terzi di ingenti quantitativi (5.451,41 tonnellate) della “lolla di riso”, ovvero dello scarto proveniente dalla lavorazione del riso, peraltro talora miscelata anche a rifiuti pericolosi, e nell’immissione di energia elettrica, attraverso l’entrata in funzione, verso la fine del 2002, di un impianto di termovalorizzazione.
Nell’ambito di quest’attività, secondo la prospettiva accusatoria e restando nel perimetro delle imputazioni riguardanti i soli ricorrenti, vi sarebbe stato, dal gennaio 2007 all’ottobre 2009, un traffico illecito di rifiuti (capo 1), consistito nel miscelare la lolla di riso con altri rifiuti anche pericolosi, alterandone la matrice originaria e trasformandola così in un rifiuto, per poi rivenderla ad allevamenti zootecnici che la utilizzavano come lettiera per gli animali.
Un ulteriore traffico illecito di rifiuti (capo 2) sarebbe inoltre consistito nel cedere, trasportare, ricevere e comunque gestire illecitamente ingenti quantitativi, pari a 38.870 tonnellate, di rifiuti di varia natura, con caratteristiche non contemplate dall’autorizzazioni dell’impianto, nonché nel miscelare i combustibili dell’impianto con rifiuti anche pericolosi, come polveri di abbattimento fumi, nonché nel mantenere il sistema di monitoraggio delle emissioni in atmosfera SME in condizioni di permanente malfunzionamento, tutto ciò al fine di conseguire un ingiusto profitto, consistito per la (omissis) nell’ottenimento di maggiori somme di denaro versate dai conferitori dei rifiuti per lo smaltimento e dall’abbattimento dei costi di smaltimento degli altri rifiuti., con condotta posta in essere in Pavia dal gennaio 2007 al marzo 2010.
In questo contesto, un ulteriore addebito (capo 3) concerne la falsificazione dei certificati di analisi provenienti dal laboratorio (omissis), dove operavano (omissis) e (omissis), in ordine alla composizione dei rifiuti conferiti alla (omissis), con condotta posta in essere dal 2007 al 2009.
Le ultime due imputazioni concernono i reati di truffa ai danni dello Stato (capo 6) e frode nell’esecuzione dei contratti (capo 7) in danno dell’ente pubblico “Gestore Servizi Elettrici” (G.S.E.), reati che si assumono commessi in quanto la (omissis), presso il cui impianto rifiuti anche pericolosi non conformi alle autorizzazioni rilasciate, induceva in errore il G.S.E. sulla regolare esecuzione delle due convenzioni concluse con la (omissis) nel 2002 e nel 2004 per la cessione di energia elettrica prodotta da biomassa, vendendo energia qualitativamente diversa da quella pattuita e conseguendo in tal modo un ingiusto profitto, pari ad almeno € 23.277.001,00, rappresentato dalle somme indebitamente percepite per la vendita concordata di energia elettrica pulita, fatti questi commessi in Pavia dal gennaio 2007 al marzo 2010.
2. Compiuta questa breve premessa generale, è ora possibile iniziare l’esposizione dei motivi di ricorso, nei limiti strettamente necessari per la motivazione, così come previsto dall’art. 173 disp. att. cod. proc. pen.
2.1 (omissis) ha sollevato 4 motivi.
Con il primo, lamenta l’inosservanza degli art. 31 della l. 308/2004, 184 bis e 185 lett. F) del d. lgs. 152/2006, osservando che la lolla di riso è stata indebitamente assimilata a un rifiuto, sebbene il D.M. Ambiente del 5 aprile 2006 e il D.M. Ambiente del 2 maggio 2006 ne abbiano disposto la cancellazione dall’elenco dei rifiuti non pericolosi, dovendo la lolla di riso essere inquadrata quindi nella categoria dei sottoprodotti, ai sensi degli art. 184 bis e 185 lett. F del d.lgs. 152/2006, a nulla rilevando la sua destinazione, come invece ritenuto dai giudici di merito con una chiara forzatura esegetica del dato normativo.
Con il secondo motivo, viene censurata l’inosservanza degli art. 360 cod. proc. pen., 220 disp. att. cod. proc. pen., nonché della norma Uni 10802 nell’ambito della fase di campionatura dei rifiuti, evidenziandosi in proposito che, in occasione della perquisizione disposta il 6 ottobre 2009, furono disposti dei prelievi costituenti accertamenti tecnici non ripetibili, in quanto aventi ad oggetto materiale soggetto a modificazione, con conseguente necessità di dare corso alla disciplina degli avvisi di cui agli art. 360 cod. proc. pen. e 220 disp. att. cod. proc. pen., con conseguente inutilizzabilità degli esiti dei prelievi recepiti nella consulenza tecnica degli ing. (omissis), (omissis) e (omissis), anche perché compiuti senza il rispetto dei metodi di cui alla norma tecnica Uni 10802.
Con il terzo motivo, la difesa deduce il difetto di motivazione della sentenza impugnata, in relazione al diniego della rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale ai sensi dell’art. 603 cod. proc. pen., evidenziando che la Corte territoriale aveva omesso di pronunciarsi sulla richiesta difensiva di disporre una perizia al fine di compiere delle opportune analisi chimico-fisiche sui materiali sequestrati, visti anche i limiti degli elementi probatori forniti dall’accusa, non essendo inidonee la consulenza tecnica e le videoriprese eseguite dal Corpo Forestale a stabilire la composizione chimica del materiale incenerito.
Con il quarto motivo, infine, la ricorrente lamenta il giudizio sulla sussistenza dell’elemento soggettivo dei reati contestati, con riferimento tanto al dolo del fatto quanto al dolo della partecipazione; si rileva al riguardo come non sia stata raccolta nel processo alcuna prova di un contributo fattuale della (omissis), non solo nella forma della determinazione, ma anche della mera adesione partecipativa, non essendo stato considerato che la ricorrente era una semplice impiegata contabile, priva di competenze in tema di rifiuti.
Viceversa, le intercettazioni telefoniche e gli altri elementi valorizzati dalle decisioni di merito, come la sua partecipazione al Comitato di direzione, erano del tutto insufficienti al fine di provare il suo coinvolgimento nei fatti contestati, posto che la ricorrente aveva iniziato a occuparsi occasionalmente degli acquisti della lolla di riso e dei conferimenti dei rifiuti solo dal 30 settembre 2009, cioè 6 giorni prima dal momento in cui ha avuto luogo la perquisizione della P.G.
2.2 (omissis) ha sollevato 7 motivi.
Con il primo, la difesa eccepisce la violazione dell’art. 500 comma 2 cod. proc. pen., avendo il Collegio posto a fondamento della decisione il contenuto di una dichiarazione resa nelle indagini preliminari, oggetto di una mera contestazione al teste (omissis), il quale in dibattimento aveva dichiarato di non ricordare le sue precedenti dichiarazioni, che quindi erano inutilizzabili.
Con il secondo motivo, il ricorrente contesta l’illogicità della motivazione e il radicale travisamento delle prove dichiarative e degli elaborati tecnici del consulente della Pubblico Ministero e della Guardia Forestale; si osserva in particolare che dalle deposizioni dei testi (omissis) e (omissis), dipendenti della (omissis), non si ricavava affatto che i soggetti coinvolti nella filiera della gestione dei rifiuti, dunque anche gli autisti della (omissis), fossero in grado di rendersi conto della reale composizione dei rifiuti trasportati.
Quanto agli accertamenti oggetto della consulenza tecnica dei dr. (omissis), (omissis) e (omissis), la difesa rimarca l’irrilevanza del richiamo alle loro verifiche tecniche, in quanto i consulenti del P.M. non avevano mai fermato o controllato un trasporto effettuato dalla (omissis).
In ordine poi al prospetto dei rifiuti in entrata nello stabilimento della (omissis) redatto dalla Corpo forestale, si sottolinea come lo stesso non fosse affatto idoneo a dimostrare che gli autisti della (omissis) e il medesimo (omissis) avessero consapevolezza della reale consistenza dei rifiuti trasportati.
Con il terzo motivo, viene lamentata la carenza totale di motivazione in ordine ai criteri di valutazione del contenuto dell’intercettazione telefonica avente quale interlocutore il dr. (omissis), impiegata quale perno logico della pronuncia.
A tal proposito, la difesa deduce che l’interpretazione del contenuto del dialogo intercettato il 26 novembre 2009 tra (omissis) e (omissis), oltre a essere illogica rispetto al reale tenore della conversazione telefonica, era anche inconferente, essendo stato equivocato il contenuto di alcune parole (ad esempio “lotti” in luogo di “(omissis)”) e non essendo stato considerato che la predetta telefonata era partita per errore dall’utenza telefonica del dr. (omissis) e che non vi era alcun elemento oggettivo che potesse solamente far sospettare che i due interlocutori stessero davvero discutendo dei rifiuti conferiti nella (omissis).
Con il quarto motivo, oggetto di doglianza è il fallace apprezzamento della piattaforma probatoria disponibile nel fascicolo processuale, essendo stati ritenuti erroneamente non ricompresi nel predetto fascicolo alcuni documenti decisivi prodotti dalla difesa, volti a dimostrare la reale incidenza della (omissis) nel fatturato della (omissis), ovvero i documenti prodotti dalla difesa innanzi al Tribunale di Pavia all’udienza dell’11 aprile 2013, da cui si desumeva che l’incidenza delle commesse provenienti dalla (omissis), su un volume di affari pari a € 6.320.319,23 nel 2009 e a € 5.115.703,91 nel 2010, risultava nel primo anno solo dell’8,08% e nel secondo del 6,08%, dovendosi peraltro tenere conto del fatto che i trasporti dei rifiuti prodotti dalla (omissis) non erano affatto destinati in via esclusiva alla (omissis); il dato probatorio omesso era qualificabile in termini di decisività, posto che la minima incidenza delle commesse provenienti dalla (omissis) sull’intero fatturato della (omissis) era idonea a scardinare l’intero impianto accusatorio in ordine all’esistenza dell’ingiusto profitto rilevante ai fini della sussistenza del reato e, in particolare, del vantaggio economico che avrebbe percepito l’imputato, tanto più che le tariffe applicate dalla società amministrata da (omissis) erano identiche, sia per i rifiuti con codice CER 191212, sia per quelli con codice CER 191207.
Con il quinto motivo, il ricorrente censura l’omessa motivazione della sentenza rispetto alle ragioni che hanno giustificato il discostamento dalle conclusioni del consulente tecnico della difesa ing. (omissis) e dalla testimonianza di (omissis), autista della (omissis), non avendo la Corte di appello valutato le predette risultanze probatorie, dalle quali si evinceva che l’apprezzamento visivo e organolettico della consistenza dei rifiuti era oggettivamente impedito sia dalla presenza di vasche alte almeno 4 metri, dove erano contenuti i rifiuti, sia dalla sostanziale similitudine delle tipologie di rifiuti.
Con il sesto motivo, la difesa si duole dell’erronea interpretazione degli art. 42 cod. pen. e 260 del d. lgs. 152/2006, avendo ritenuto la Corte di appello di poter desumere la sussistenza dell’elemento psicologico del ricorrente dalla mera posizione apicale ricoperta all’interno della (omissis), trascurando di considerare che il dr. (omissis) era completamente all’oscuro della tipologia dei rifiuti trasportati, per cui il giudizio di colpevolezza doveva ritenersi in contrasto con i principi in tema di responsabilità penale personale, richiedendo la fattispecie contestata non solo la rappresentazione e volizione del fatto antigiuridico, ma anche il fine di conseguire un ingiusto profitto, aspetti questi rivelatisi non adeguatamente comprovati nel caso di specie, anche perché il codice che indicava la tipologia del rifiuto non veniva attribuito dalla (omissis), la quale riceveva i rifiuti per il trasporto già provvisti del codice.
Con il settimo motivo, viene dedotta infine l’assenza di motivazione in ordine alla sussistenza in capo a (omissis) della coscienza e volontà di partecipare a una attività organizzata per il traffico abusivo di rifiuti, rilevandosi che, a parte l’intercettazione del 26 novembre 2009, non vi era alcuna traccia nel compendio probatorio di elementi sintomatici della consapevole partecipazione del ricorrente alla condotta asseritamente illecita posta in essere dai coimputati.
2.3. (omissis), (omissis) e la (omissis) hanno sollevato, in termini sostanzialmente analoghi, un unico motivo, con il quale contestano l’inosservanza e l’erronea applicazione dell’art. 300 del d. lgs. 152/2006, osservando, con riferimento alla conferma della condanna generica al risarcimento del danno in favore del costituito Ministero dell’Ambiente, che nel caso di specie non vi è stato alcun danno ambientale risarcibile, in quanto un generico “inquinamento atmosferico” non configura un danno ambientale ai sensi dell’art. 300 del d. lgs. 152/2006, delineando la predetta norma una nozione di danno ambientale equivalente a quella contemplata nella diretta europea 2004/35/CE, che non annovera anche l’inquinamento dell’area tra le forme del danno ambientale, inteso come qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata a quest’ultima, dove per risorsa naturale si intendono specie e habitat naturali protetti, acqua e terreno. In ogni caso, i ricorrenti rimarcano l’erroneità del richiamo dei giudici di merito all’art. 311 del d. lgs. 152/2006, trattandosi di norma abrogata nel 2013 che conteneva una definizione di danno ambientale che si rifaceva al vecchio art. 18 della l. 349/1986, mentre la versione attuale della norma contiene un espresso riferimento all’allegato 3 della parte sesta del d. lgs. 152/2016, che richiama unicamente il contenuto delle definizioni di cui all’art. 300 del d. lgs. 152/2016.
2.4 (omissis) e (omissis) , nel loro comune ricorso, hanno sollevato due motivi, il primo dei quali è sovrapponibile a quello avanzato da (omissis), (omissis) e (omissis), censurandosi cioè l’inosservanza dell’art. 300 del d. lgs. 152/2016 rispetto alla qualificazione come danno ambientale dell’inquinamento dell’aria.
Con il secondo motivo, la difesa deduce la mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, rilevando che, al fine di ricollegare alla condotta dei ricorrenti il presunto danno ambientale, consistente nell’immissione di sostanze nocive nell’atmosfera a seguito della combustione dei rifiuti, i giudici di merito avrebbero dovuto indicare non solo le sostanze immesse, ma la loro inequivocabile provenienza dalla combustione dei carichi provenienti dall’azienda (omissis), il che non era avvenuto nel caso di specie, risultando del tutto carente sul punto l’apparato motivazionale della sentenza impugnata.
CONSIDERATO IN DIRITTO
I ricorsi sono inammissibili perché manifestamente infondati.
1. Prima di soffermarsi sui singoli ricorsi, appare utile una pur breve esposizione introduttiva del contesto fattuale in cui si inserisce la presente vicenda processuale. Al riguardo, occorre innanzitutto premettere che le due conformi sentenze di merito, le cui motivazioni sono destinate a integrarsi per formare un corpus argomentativo unitario, hanno ricostruito i fatti di causa in maniera chiara e puntuale, analizzando con rigore le fonti probatorie acquisite.
In tal senso sono stati richiamati, in primo luogo, gli approfonditi accertamenti della P.G. (in particolare del Corpo Forestale dello Stato) e del consulente tecnico del P.M., ing. (omissis), da cui è emerso che, tra il 1998 e i primi mesi del 2000, all’esito di varie autorizzazioni, veniva creata la (omissis), impegnata nella gestione di un impianto di termovalorizzazione installato al fine di consentire all’adiacente “(omissis), società impegnata nella produzione e lavorazione del riso, di risparmiare sui costi di smaltimento degli scarti derivanti dalla lavorazione del riso, e in particolare della lolla di riso, proveniente, per il 50% dalla (omissis) e, per il resto, da altri impianti.
Orbene, a seguito dello stralcio di un procedimento incardinato presso la Procura della Repubblica di Grosseto, in cui erano emerse presunte irregolarità nella miscelazione dei rifiuti presso la (omissis), veniva avviato per circa 4 mesi un costante sistema di monitoraggio h24 presso l’impianto di coincenerimento, che consentiva di dare un importante impulso alle indagini.
Queste conoscevano uno snodo importante il 6 ottobre 2009, allorquando veniva eseguita una perquisizione all’interno della (omissis) e presso il laboratorio (omissis), dove venivano svolte le analisi chimiche dei rifiuti.
Dall’ampia documentazione acquisita e dai rilievi tecnici dei consulenti del P.M. ing. (omissis), dott. (omissis) e dott. (omissis), correlati alle riprese video, risultava in particolare, per quanto in questa sede rileva, che la lolla di riso veniva miscelata con le polveri di abbattimento fumi generate dall’impianto, polveri che, costituendo rifiuti pericolosi con altissime concentrazioni di metalli pesanti, avrebbero dovuto essere invece smaltite all’esterno, non essendo la (omissis) autorizzata all’autosmaltimento dei rifiuti dell’impianto.
Veniva altresì accertato che anche le ceneri di diversa natura, prima di essere smaltite e conferite presso impianti all’esterno, venivano miscelate tra di loro.
Peraltro, al momento della perquisizione presso l’impianto, veniva controllato un autocarro che trasportava rifiuti provenienti dalla società (omissis), intermediato dalla (omissis), con il codice CER 191207, legno non pericoloso, diverso dal codice CER 191206, ovvero legno pericoloso, mentre dalle analisi eseguite durante le operazioni di scarico risultava che nel materiale trasportato vi erano altissime quantità di componenti estranei, come plastica, vetro, materiale ferroso e altro, miscelato con materiale vegetale.
Dopo la perquisizione del 6 ottobre 2009, la visione dei filmati della telecamera, non subito rimossa dalla P.G., consentiva di accertare un sostanziale cambiamento dei materiali introdotti nell’impianto, che da quel momento consistevano in materiali vegetali, come previsto dalle autorizzazioni, provenienti dalle biomasse e accompagnati dai corretti formulari di trasporto rifiuti.
Quanto invece all’indebita miscelazione della lolla di riso con le polveri di abbattimento, veniva accertato che lo smaltimento di tali polveri costava circa 200 euro a tonnellata, per cui, considerato il quantitativo di polveri non smaltito e miscelato alla lolla di riso, il guadagno della (omissis), derivante dal risparmio sui costi di smaltimento delle polveri di abbattimento fumi, negli anni 2007, 2008 e 2009, veniva calcolato in circa 950-970.000 euro.
Allo stesso modo, mediante anche le deposizioni dei testi (omissis), operatore palista, e (omissis), capo turno impianto dal 2002 al 2009, veniva comprovato che la lolla di riso, arrivata nell’impianto tramite una conduttura di trasporto meccanica (cd. redler) dalla riseria adiacente, veniva miscelata con altri rifiuti; in particolare, la lolla destinata all’incenerimento e la lolla che veniva poi venduta a terzi veniva custodita e stoccata in un unico cumulo nel piazzale, dove veniva miscelata con le polveri di abbattimento fumi, prima di essere prelevata in parte per formare miscela per la combustione nell’impianto, unita a plastica e legno, e in parte per essere caricata sui camion in vista della vendita a terzi, in particolare ad allevamenti o industrie esercenti attività di lavorazione del legno.
Inoltre, oltre che con le polveri di abbattimento fumi, il cumulo di lolla di riso presente sul piazzale della (omissis), da cui si prelevava sia la parte destinata alla vendita, sia quella immessa nel ciclo di combustione dell’impianto, veniva miscelato, seppur in minori quantità, con altri rifiuti, come le terre di spazzamento stradale e le acque reflue dei pozzetti di ispezione dell’impianto.
Oltre a gestire in modo illecito, la (omissis) si procurava un ulteriore ingiusto profitto, quantificato in circa 23 milioni di euro, vendendo come “energia pulita” i rifiuti lavorati presso il suo impianto al Gestore Servizi Elettrici, soggetto pubblico con cui erano stati stipulati contratti per fornitura di energia elettrica, risultando l’energia venduta ben diversa per qualità da quella pattuita.
Quanto all’ascrivibilità dal punto di vista soggettivo delle condotte sin qui descritte, ritenute idonee a integrare a vario titolo i contestati reati di cui agli art. 260 (capi 1 e 2) 258 comma 4 ultimo periodo in relazione all’art. 483 cod. pen. (capo 3), 640 commi 1 e 2 cod. pen. (capo 6) e 356 cod. pen. (capo 7), deve innanzitutto rilevarsi che il Presidente del C.d.A. della (omissis), (omissis), il consigliere delegato e responsabile dell’impianto di coincenerimento della (omissis), (omissis) e il direttore del medesimo impianto, (omissis), hanno definito la posizione a loro carico mediante sentenze di applicazione di pena concordata, ormai irrevocabili.
All’esito dei due gradi di merito, veniva ritenuto comprovato il coinvolgimento altresì di (omissis), impiegata dell’ufficio amministrativo dell’impianto, così come veniva affermata in primo grado, fatta salva la declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione formulata in appello, la responsabilità degli altri imputati coinvolti, ovvero, per quanto rileva in questa sede, (omissis) e (omissis), rispettivamente tecnico responsabile e direttore del laboratorio di analisi chimico-fisiche (omissis), dove venivano formati falsi certificati di analisi sulla composizione dei rifiuti conferiti presso la (omissis); (omissis), legale rappresentante della società (omissis), che trasportava nell’impianto parte dei rifiuti non conformi alle autorizzazioni concesse alla (omissis), rifiuti a sua volta intermediati dalla (omissis), di cui era legale rappresentante (omissis).
Parimenti comprovato è risultato infine il coinvolgimento nella vicenda di (omissis) e (omissis), entrambi quali gestori di fatto dell’impianto di trattamento rifiuti della società (omissis), che conferiva nell’impianto della (omissis), attraverso la intermediazione della (omissis), rifiuti classificabili come altri rifiuti non diversamente recuperabili, provenienti da impianti di trattamento rifiuti di cui al codice CER 191212, dichiarando falsamente nei relativi formulari il codice CER 191207, ovvero “legno diverso da quello di cui alla voce 191206”, ciò al fine di eludere le verifiche chimico-fisiche sulla reale composizione dei rifiuti imposte, per quelli avente codice CER 191212, dall’allegato A dell’autorizzazione rilasciata dalla Regione Lombardia in favore di (omissis) con decreto n. 12657 del 2007.
Operata questa sintetica ma necessaria premessa introduttiva sulla vicenda oggetto di causa, è ora possibile procedere alla disamina degli odierni ricorsi.
1. Iniziando dalla posizione di (omissis), deve escludersi, partendo dal primo motivo, che la qualificazione giuridica della lolla di riso come rifiuto, invece che come sottoprodotto, presti il fianco alle censure difensive.
Al riguardo occorre evidenziare che la Corte territoriale ha opportunamente ricordato che la lolla di riso, con il D.M. 5 febbraio 1998, era stata classificata tra i rifiuti non pericolosi, con attribuzione del codice C.E.R. 020304 (scarti inutilizzabili per il consumo o la trasformazione), prevedendosi come attività di recupero la produzione di lettiere per allevamenti zootecnici.
La legge n. 308/2004 (art. 31) ha poi autorizzato il Ministro dell’Ambiente ad apportare modifiche al D.M. 5 febbraio 1998, volte a consentire il riutilizzo della lolla di riso, affinché non fosse considerata come rifiuto derivante dalla produzione dell’industria agroalimentare e, in effetti, con il D.M. 2 maggio 2006, è stata prevista la definitiva cancellazione della lolla di riso dal D.M. 5 febbraio 1998, per cui la stessa non è più classificata come rifiuto.
Ciò, tuttavia, non significa che la lolla di riso non possa in assoluto essere più qualificata come rifiuto, posto che l’eliminazione dal D.M. è connessa all’attività di recupero ivi originariamente indicata (produzione di lettiere per allevamenti zootecnici), il che non esclude la necessità di riconsiderare la qualificazione della lolla di riso, ove la stessa sia destinata a una diversa attività, quale appunto può essere l’utilizzo come combustibile in impianti di coincenerimento.
In quest’ottica, nel porsi la questione se la lolla di riso dovesse considerarsi un rifiuto o un sottoprodotto, correttamente i giudici di appello hanno escluso l’inquadramento del predetto materiale nella categoria dei sottoprodotti (e ciò a prescindere dal fatto che il regime derogatorio dei sottoprodotti sia stato introdotto alla fine del 2010, dunque in epoca successiva ai fatti di causa).
Sul punto è necessario premettere che, secondo l’orientamento di questa Corte (cfr. Sez. 3, n. 33028 dell’01/07/2015, Rv. 264203), la categoria dei sottoprodotti, originariamente non contemplata dalla disciplina di settore, lo è poi diventata con l’art. 184 bis del d. lgs. n. 152 del 2006 (introdotto dal d.lgs. n. 205 del 3 dicembre 2010) ed è definita dall’art. 183, lettera qq) del medesimo d. lgs., il quale si riferisce a “qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa le condizioni di cui all’art. 184 bis, comma 1, o che rispetta i criteri stabiliti in base all’art. 184 bis, comma 2”. L’art. 184 bis, a sua volta, stabilisce che è sottoprodotto e non rifiuto ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a), qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfi tutte le seguenti condizioni:
- la sostanza o l’oggetto devono trarre origine da un processo di produzione, di cui costituiscono parte integrante, e il cui scopo primario non è la loro produzione;
- deve essere certo che la sostanza o l’oggetto saranno utilizzati, nel corso dello stesso e/o di un successivo processo di produzione e/o di utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;
- la sostanza o l’oggetto possono essere utilizzati direttamente senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica industriale;
- l’ulteriore utilizzo deve essere legale, ossia la sostanza o l'oggetto deve soddisfare, per l’utilizzo specifico, tutti i requisiti pertinenti riguardanti i prodotti e la protezione della salute e dell’ambiente e non deve portare a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.
Ciò posto, ribadito che la normativa sopra richiamata è stata introdotta dopo l’epoca di consumazione dei reati contestati, deve in ogni caso ritenersi che legittimamente i giudici di merito abbiano escluso la possibilità di qualificare come sottoprodotto la lolla di riso, posto che quest’ultima, materiale di scarto prodotto da (omissis), non aveva un impiego certo sin dalla fase della sua produzione e comunque il suo processo di utilizzazione non era definito in via preventiva, posto che l’unico utilizzo individuato preventivamente era quello di essere destinato all’impianto di coincenerimento della (omissis), con cui era stato stipulato un contratto di cessione esclusiva, mentre di fatto la lolla di riso, proveniente da un’altra società, è stata invece gestita illegalmente, senza che l’impianto di termovalorizzazione della (omissis) avesse i necessari requisiti produttivi e gestionali e non essendo stata osservata la sua unica destinazione al coincenerimento, posto che la stessa veniva destinata anche agli allevamenti zootecnici, con modalità connotate da gravi irregolarità.
Infatti, come accertato all’esito di un costante monitoraggio, presso il piazzale di stoccaggio della (omissis) venivano scaricati rifiuti di ogni tipo, anche direttamente sul cumulo della lolla di riso, venendo immediatamente rimestati mediante pale meccaniche, fino a quando altri camion non caricavano la lolla di riso estraendola dallo stesso cumulo dove in precedenza erano stati versati e miscelati i rifiuti, trasportandola presso i siti delle ditte che avevano acquistato la lolla a vari scopi dalla (omissis), peraltro dopo che la lolla di riso si era miscelata con ceneri e polveri provenienti dall’inceneritore (trasportate con benna e big bags), terre di spazzamento stradale, acque reflue provenienti dalla disinfezione e dal prosciugamento dei tombini e da collettori di scolo, oltre che con gli altri rifiuti i conferiti dall’esterno o movimentati dalla stessa azienda.
L’indiscriminata miscelazione della lolla di riso con rifiuti di ogni genere ne alterava dunque la matrice originaria, trasformandola in rifiuto, pericoloso o non pericoloso a seconda della natura del rifiuto con cui veniva ogni volta mischiata.
Alla luce degli accertamenti fattuali compiuti dai giudici di merito, non suscettibili di essere messi in discussione in questa sede, in assenza peraltro di specifiche contestazioni difensive, deve ritenersi senz’altro legittima l’esclusione della lolla di riso dalla categoria dei sottoprodotti, tanto più ove si consideri che tale regime normativo presenta natura eccezionale e derogatoria rispetto alla disciplina ordinaria in tema di rifiuti, con la conseguenza che l’onere della prova circa la sussistenza delle condizioni di legge deve essere assolto da colui che ne richiede l’applicazione, il che nel caso di specie non può certo ritenersi avvenuto.
2.1. Manifestamente infondato è anche il secondo motivo di ricorso.
Ed invero, nel replicare alle obiezioni difensive circa l’asserita inosservanza dell’art. 360 cod. proc. pen. e 220 disp. att. cod. proc. pen., la Corte territoriale ha correttamente evidenziato che la consulenza disposta dal P.M. in occasione della perquisizione del 6 ottobre 2009 non costituiva un accertamento tecnico irripetibile, in quanto i campioni prelevati ai fini delle analisi richieste erano stati conservati nel tempo con le loro intrinseche caratteristiche e potevano essere sottoposti a nuovo esame, per cui l’attività svolta, rientrando nello schema dell’art. 359 cod. proc. pen., non richiedeva il coinvolgimento partecipativo dei difensori, non essendo disponibili elementi per smentire il presupposto fattuale della decisione dei giudici di merito, ovvero la ripetibilità delle verifiche tecniche.
Quanto all’ulteriore problematica della dedotta inutilizzabilità degli esiti degli accertamenti effettuati dai consulenti per l’inosservanza delle procedure e dei metodi di cui alla norma Uni 10802, è sufficiente in questa sede richiamare la condivisa affermazione di questa Corte (Sez. 3, n. 1987 dell’08/10/2014, Rv. 261786), secondo cui, in tema di gestione di rifiuti, l’accertamento della pericolosità di un rifiuto non richiede necessariamente il rispetto delle metodiche di campionamento e di analisi fissate dalla norma tecnica UNI 10802 (richiamata dall’art. 8 del D.M. 5 febbraio 1998), trattandosi di un insieme di disposizioni prive di portata generale vincolante, dirette unicamente allo scopo di disciplinare le analisi effettuate a cura del titolare dell’impianto di produzione dei rifiuti.
2.2 Passando al terzo motivo di ricorso della (omissis), con cui è stata censurata la violazione dell’art. 603 cod. proc. pen., occorre evidenziare che il diniego da parte della Corte di appello della richiesta difensiva di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale mediante l’espletamento di una perizia sui materiali sequestrati, sebbene non motivato, non può per ciò solo ritenersi illegittimo.
Al riguardo, deve ribadirsi che, come già affermato da questa Corte (cfr. in particolare Sez. 3, n. 47963 del 13/09/2016, Rv. 268656), la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale regolata dall’art. 603 cod. proc. pen., si struttura in tre ipotesi: la prima, subordinata alla richiesta di parte e disposta solo se il giudice di appello ritiene di non essere in grado di decidere allo stato degli atti, si configura con riguardo alla riassunzione di prove già acquisite o all’assunzione di prove nuove, preesistenti e conosciute (art, 603, comma 1, cod. proc. pen., cd. rinnovazione facoltativa); la seconda, ugualmente subordinata alla richiesta di parte, ma in questo caso soggetta ai soli limiti di manifesta superfluità o irrilevanza o di divieto di legge, è prevista con riferimento alle prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado (art. 603, comma 2, in combinato disposto con gli art. 495, comma 1, e 190, comma 1, cod. proc. pen., cd. rinnovazione obbligatoria); la terza, infine, costituisce espressione di un potere officioso del giudice di appello, analogo a quello del giudice di primo grado (art. 507 cod. proc. pen.), nel caso di valutazione di assoluta necessità ai fini della decisione (art. 603, comma 3, cd. rinnovazione ex officio).
La giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 1, n. 50893 del 12/11/2014, Rv. 261483) ha poi precisato che le due ipotesi di rinnovazione a istanza di parte devono diversificarsi anche sotto il profilo temporale della proposizione della relativa richiesta: quando l’iniziativa è assunta dall’appellante, l’art. 603 comma 1 cod. proc. pen. prevede infatti che la richiesta di rinnovazione istruttoria dibattimentale, accompagnata dalle prove di cui si chiede l’ammissione, sia con riferimento alla riassunzione di prove già acquisite nel dibattimento di primo grado, sia in relazione alla assunzione di prove nuove, debba essere avanzata nell’atto di appello o nei motivi aggiunti ex art. 585 comma 4 cod. proc. pen., mentre, nel caso della istanza di cui all’art. 603 comma 2 cod. proc. pen., avente ad oggetto prove “sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado”, non opera la preclusione derivante dalla mancata indicazione nei motivi di appello o dalla scadenza del termine stabilito dall’art. 585 comma 4 cod. proc. pen.
Deve poi aggiungersi che l’obbligo di motivazione a carico del giudice di appello si conforma diversamente, a seconda che l’istanza della parte sia avanzata ex art 603 comma 1 cod. proc. pen., ovvero ex art. 603 comma 2 cod. proc. pen.
Costituisce infatti affermazione costante di questa Corte (cfr. Sez. 4, n. 47095 del 02/12/2009, Rv.245996) quella secondo cui il giudice d’appello ha l’obbligo di disporre la rinnovazione del dibattimento solo quando la richiesta della parte sia riconducibile alla violazione del diritto alla prova, non esercitato non per inerzia colpevole, ma per forza maggiore o per la sopravvenienza della prova dopo il giudizio, o quando la sua ammissione sia stata irragionevolmente negata dal giudice di primo grado. In tutti gli altri casi, la rinnovazione del dibattimento è rimessa al potere discrezionale del giudice, il quale è tenuto a dar conto della sufficiente consistenza e della assorbente concludenza delle prove già acquisite.
Pertanto, nel caso dell’istanza di cui all’art. 603 comma 1 cod. proc. pen., la rinnovazione deve essere specificamente motivata, mentre, in caso di rigetto, la relativa motivazione può essere anche implicita nella stessa struttura argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in senso positivo o negativo sulla responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il dibattimento; diversamente, quanto all’istanza ex art. 603 comma 2 cod. proc. pen., fermo il potere - dovere del giudice di verifica tracciato dal combinato disposto degli art. 190 comma 1 e 495 cod. proc. pen., l’ammissione della prova è doverosa negli stessi termini di cui all’art. 495 comma 1, richiamato dall’art. 603 comma 2, e comprende anche quello di ammettere la prova contraria secondo quanto previsto dall’art. 495, comma 2, stesso codice.
In definitiva, deve concludersi che la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale, in caso di riassunzione di prove già acquisite in primo grado o di prove nuove, concetto nel quale deve farsi rientrare anche la perizia “esplorativa” sollecitata in appello, si connota quale evenienza eccezionale, per cui in tale caso non è indispensabile un esplicito obbligo motivazionale, essendo l’istanza volta alla verifica successiva della completezza di un quadro probatorio già assunto.
Ciò posto, deve quindi escludersi che il difetto motivazionale sul diniego della richiesta difensiva di disporre una perizia in appello si qualifichi come illegittimo, posto che la Corte territoriale ha più volte rimarcato la completezza e univocità del quadro istruttorio delineatosi in primo grado, ritenendo in tal modo implicitamente superfluo l’approfondimento istruttorio in questione, che peraltro è stato sì sollecitato con l’atto di appello, ma non in maniera adeguatamente specifica. Di qui la manifesta infondatezza della richiesta difensiva.
2.3. Venendo infine al quarto motivo di ricorso, deve osservarsi che parimenti risulta immune da censure la formulazione del giudizio di colpevolezza dell’imputata in ordine ai reati a lei addebitati ai capi 1, 2, 6 e 7 della rubrica (essendo stato dichiarato estinto per prescrizione in appello solo il primo reato).
Al riguardo, deve infatti osservarsi che, all’esito di una puntuale e razionale disamina delle risultanze probatorie raccolte, i giudici di merito hanno accertato come la (omissis), al di là della sua veste formale di impiegata dell’ufficio amministrativo della (omissis), in realtà era capace di coordinare i flussi di lolla di riso in uscita e i rifiuti in ingresso, avendo sul punto autonomia gestionale ed essendo altresì consapevole del fatto che la lolla in uscita dall’impianto di coincenerimento fosse contaminata con rifiuti di altro genere.
Tale conclusione è stata fondata in primo luogo sulle dichiarazioni dei testi (omissis) e (omissis), i quali hanno confermato che era la (omissis) (insieme a (omissis)) a tenere i rapporti con gli acquirenti della lolla di riso e con i fornitori dei rifiuti, occupandosi anche dei relativi contratti e predisponendo altresì la programmazione dei rifiuti in entrata, divisi per categoria e quantità, agendo in sinergia con l’ing. (omissis), che stabiliva i prezzi, ma con ampi margini operativi, ad esempio potendo prendere accordi sul numero dei carichi che potevano entrare nell’impianto o sui giorni di consegna della lolla di riso.
Del resto, la (omissis) partecipava anche alle riunioni dei Comitato di direzione, unitamente, tra gli altri, al Presidente della (omissis), (omissis), e appunto all’ing. (omissis), in veste di amministratore delegato.
La definitiva conferma del consapevole contributo arrecato dalla ricorrente al traffico illecito dei rifiuti e alle condotte truffaldine poste in essere nei confronti del Gestore dei servizi elettrici, cui è stata venduta energia qualitativamente diversa da quella concordata, è inoltre stata desunta dal tenore di non poche conversazioni intercettate (progr. 52 e 54 del 30 settembre 2009, 403 e 413 del 1° ottobre 2009, 478 e 483 del 2 ottobre 2009, 897 del 5 ottobre 2009, 2685 del 7 ottobre 2009, 3166 del 7 novembre 2009, 4817 del 9 novembre 2009 e 330 del 18 novembre 2010), riportate per esteso nella sentenza di primo grado, da cui si evince sia che la (omissis) aveva una riconosciuta autonomia decisionale nella gestione dei rifiuti, sia che la stessa era perfettamente a conoscenza del fatto che nella lolla di riso trattata dalla (omissis) e destinata agli allevamenti erano miscelate sostanze pericolose (significativa tra le tante la frase pronunciata dall’imputata “non vorrei rischiare di farle morire tutte le bestie”).
In definitiva, il giudizio di colpevolezza dell’odierna ricorrente, nei termini del suo contributo consapevole alle attività illecite cristallizzate nelle imputazioni, risulta fondato su una pluralità di elementi probatori attentamente esaminati e logicamente messi in correlazione tra loro, esaurendosi le censure difensive in una rilettura del materiale istruttorio e del ruolo dell’imputata non consentita in questa sede, anche affidata a dati fattuali desunti da uno scrutinio frammentario delle molteplici fonti dimostrative apprezzate nelle due sentenze di merito.
Né infine appare dirimente la circostanza che i contratti con il gestore dei servizi energetici risalgono al 2002 e al 2004, contestandosi all’imputata di aver fornito il suo apporto illecito non al momento genetico delle pattuizioni contrattuali, di per sé legittime, ma a quello esecutivo, collocandosi peraltro le condotte fraudolenti contestate in una fase storica in cui l’imputata aveva ormai assunto un ruolo decisionale ben definito nell’ambito dell’organizzazione aziendale.
Ne consegue che il ricorso della (omissis) deve essere ritenuto manifestamente infondato e dunque inammissibile.
3. Passando al ricorso proposto nell’interesse di (omissis) e iniziando dal primo motivo, occorre evidenziare che la doglianza sull’asserita inosservanza dell’art. 500 comma 2 cod. proc. pen. risulta inammissibile, rivelando sul punto il ricorso seri limiti di autosufficienza, in quanto l’allegazione della fonoregistrazione della deposizione del teste (omissis), nell’ambito della quale sarebbe avvenuta la contestazione delle dichiarazioni investigative non confermate dal dichiarante, risulta incompleta, essendo presenti solo le pagine 45, 48, 50, 51 e 54, per cui, essendo rimasti sospesi molti passaggi della testimonianza, non è possibile cogliere l’effettivo e intero sviluppo della deposizione, fermo restando che, rispondendo all’obiezione difensiva, la Corte di appello ha evidenziato che la sentenza di primo grado aveva analizzato anche le contestazioni in aiuto alla memoria fatte ai testimoni, senza porle a fondamento della decisione se prive di conferma, ma al più utilizzandole per evidenziare la scarsa credibilità di costoro.
E in effetti tale affermazione trova pieno riscontro nella motivazione della decisione di primo grado che, proprio con riferimento alla disamina della deposizione del teste (omissis), riporta testualmente (pag. 19, 20, 28, 29, 35, 38 e 39) i soli passaggi in cui il dichiarante ha confermato il contenuto delle contestazioni, senza menzionare affatto le affermazioni investigative in ordine alle quali il teste ha manifestato in dibattimento ricordi non chiari e precisi.
3.1 Inammissibile è anche il secondo motivo di ricorso, con cui viene dedotto il travisamento di una serie di prove dichiarative e documentali da parte dei giudici di merito, in particolare delle deposizioni dei testi (omissis) e (omissis), della consulenza tecnica dei dottori (omissis), (omissis) e (omissis) e del prospetto dei rifiuti redatto dal Corpo forestale dello Stato.
Al riguardo, occorre infatti richiamare la costante affermazione di questa Corte (cfr. ex multis Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, Rv. 269217 e Sez. 5, n. 18975 del 13/02/2017, Rv. 269906), secondo cui, nel caso di cosiddetta “doppia conforme”, il vizio del travisamento della prova, per utilizzazione di un’informazione inesistente nel materiale processuale o per omessa valutazione di una prova decisiva, può essere dedotto con il ricorso per cassazione ai sensi dell’art. 606, comma primo, lett. e) cod. proc. pen., solo nel caso in cui il ricorrente rappresenti, con specifica deduzione, che il dato probatorio asseritamente travisato è stato per la prima volta introdotto come oggetto di valutazione nella motivazione del provvedimento di secondo grado.
Tale presupposto non appare ravvisabile nel caso di specie, dovendosi rilevare invero che le deduzioni difensive risultano fondate su una lettura parcellizzata del materiale probatorio raccolto, la cui disamina è stata operata in primo e secondo grado in modo rigoroso e convergente, sia rispetto alle testimonianze dei dipendenti della (omissis) (omissis) e (omissis), che hanno descritto le modalità di lavorazione della lolla di riso, sia in ordine agli accertamenti compiuti dai consulenti del P.M. sulla qualità chimico-fisica dei materiali in entrata e in uscita dall’impianto, sul funzionamento generale del termovalorizzatore, e sul rapporto tra la potenzialità annuale dell’impianto e il calcolo del quantitativo di polveri di abbattimento fumi, sia infine in relazione agli elenchi predisposti dal Corpo forestale dello Stato, che per ogni giorno indicavano il produttore, il trasportatore, gli intermediari e i codici dei rifiuti, inserendosi questo ulteriore elemento documentale in un contesto probatorio già di per sé solido e coerente.
Ne consegue che la doglianza difensiva deve essere ritenuta inammissibile, tanto più ove si consideri che anche sul punto il ricorso sconta ancor più evidenti limiti di autosufficienza, non risultando allegati gli atti di cui si assume il travisamento.
3.2. Ad analoghe conclusioni deve pervenirsi anche rispetto al terzo motivo del ricorso di (omissis), con il quale viene lamentata l’erronea interpretazione da parte dei giudici di merito del contenuto della conversazione telefonica intercorsa il 26 novembre 2009 tra gli imputati (omissis) e (omissis).
Al riguardo, premesso che nel caso di specie si contesta non il travisamento ma la non condivisa interpretazione del dialogo intercettato, deve evidenziarsi che, come già chiarito più volte dalla giurisprudenza di legittimità (cfr. Sez. 3, n. 6722 del 21/11/2017, Rv. 272558), in sede di legittimità, è possibile prospettare un’interpretazione del significato di un'intercettazione diversa da quella proposta dal giudice di merito solo in presenza di travisamento della prova, ossia nel caso in cui il giudice di merito ne abbia indicato il contenuto in modo difforme da quello reale e la difformità risulti decisiva e incontestabile.
Alla luce di tale premessa ermeneutica, va quindi rimarcata la manifesta infondatezza della doglianza difensiva, che come detto si limita a censurare la lettura data alla conversazione intercettata, senza contestarne il travisamento, che in effetti non vi è stato, avendo in particolare la sentenza di primo grado riportato fedelmente il testo della telefonata in questione (pag. 188, 189 e 190), valutandola legittimamente alla luce del restante materiale probatorio acquisito e dando comunque atto che, all’esito del dibattimento, la frase pronunciata da (omissis) e trascritta come “smaltimento a (omissis)” è risultata essere “smaltimento a lotti”, per cui anche sotto tale profilo alcun travisamento appare prospettabile.
3.3. I restanti motivi del ricorso di (omissis) possono essere affrontati contestualmente, concernendo gli stessi, sotto profili diversi ma tra loro sovrapponibili, il giudizio sulla responsabilità del ricorrente in ordine al reato ascrittogli, giudizio che tuttavia non presta il fianco alle obiezioni difensive.
Ed invero, sia il Tribunale che la Corte di appello, nella disamina del capo B, relativo al traffico illecito di rifiuti riconducibili ai carichi provenienti dalla (omissis), hanno evidenziato che quest’ultima società era uno dei principali conferitori di rifiuti presso la (omissis) (circa 11.000 tonnellate di rifiuti nel triennio 2007-2009), con riferimento a due tipologie in particolare: quelli con C.E.R. 191207, ovvero legno proveniente da impianti di trattamento rifiuti in partenza non pericoloso, e, in quantità più esigua, quelli con C.E.R. 191212, altri rifiuti provenienti da impianto di trattamento meccanico di rifiuti.
Tali rifiuti venivano intermediati dalla (omissis), amministrata da (omissis), che si avvaleva per il trasporto anche della società (omissis), di cui era legale rappresentante il ricorrente (omissis).
In realtà, come emerso dalle verifiche tecniche e dagli accertamenti di P.G., i carichi trasportati con il codice C.E.R. 191207 non contenevano legno non pericoloso corrispondente al predetto codice, ma altro materiale, tra cui plastica, vetro e ferro, come accertato in occasione del sopralluogo del 6 ottobre 2009.
Orbene, premesso che tale ricostruzione della vicenda non è contestata, deve evidenziarsi che, quanto alla consapevolezza da parte di (omissis) dell’attività svolta dalla sua società, i giudici di merito hanno valorizzato la conversazione telefonica occorsa il 26 novembre 2009, allorquando, dialogando con (omissis) (peraltro a seguito di un contatto telefonico casuale), (omissis) mostra chiaramente di essere a conoscenza del fatto che i rifiuti conferiti nella (omissis) eludevano le necessarie analisi sul C.E.R. 191212, avendo come detto il Giudice di primo grado, al pari della Corte di appello, preso atto della correzione della frase “smaltimento a (omissis)” in “smaltimento a lotti”, evidenziando che tale puntualizzazione non smentiva tuttavia il senso complessivo del discorso, posto che anzi tale affermazione, inserita nel contesto della conversazione, consentiva di cogliere la percepita rilevanza economica di questo tipo di smaltimento per tutti gli operatori, compresi gli intermediari e i trasportatori, con conseguente interesse di costoro a mantenere le commesse che dipendevano a monte dai costi del produttore (la (omissis) appunto), che conseguiva un risparmio significativo eludendo le analisi sui rifiuti con codice C.E.R. 121207 legate alla quantità.
Del resto, la lettura unitaria delle deposizioni dei dipendenti della (omissis) (omissis), (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis) consentiva di confermare la diretta percezione da parte di tutti gli operatori della effettiva consistenza merceologica dei rifiuti introdotti dalla (omissis) come C.E.R. 191207, nei quali vi erano notevole quantità di materiali estranei (vetro, plastica e altro).
In quanto aderente alle fonti dimostrative acquisite e sorretta da argomentazioni non illogiche, la motivazione delle decisioni di merito non soccombe al cospetto alle censure difensive, che invero appaiono disancorate da una doverosa visione di insieme del compendio probatorio veicolato nel fascicolo processuale.
È il caso, ad esempio, della doglianza formulata nel quarto motivo di ricorso, con cui si contesta l’affermazione della Corte di appello secondo cui non esisterebbe riscontro documentale circa l’effettivo fatturato della (omissis) in relazione al rapporto commerciale tra quest’ultima società e la (omissis).
Ora, se è vero che l’affermazione dei giudici di secondo grado sembra in parte contraddetta dalla produzione documentale della difesa, che, seppur riferita a un’epoca (2008-2010) non perfettamente coincidente con quella contestata (2007-2009) e sebbene priva di un riepilogo finale, pare attestare effettivamente che i rapporti commerciali con la (omissis) rappresentavano una parte esigua del fatturato della società di (omissis) (quantificato dalla difesa nell’8,08 % nel 2009 e nel 6,08% nel 2010), è altrettanto vero che tale circostanza non appare di per sé dirimente, ove si consideri, da un lato, che gli importi delle operazioni commerciali con la (omissis), in sé considerati, non si palesano affatto trascurabili dal punto di vista economico e, dall’altro lato, che risultano provati nel periodo di osservazione ben 189 trasporti illeciti da parte della (omissis) presso la (omissis) e che, come riferito dall’operante (omissis) all’esito di verifiche dirette, buona parte dei flussi della (omissis) nell’impianto venivano eseguiti proprio attraverso i mezzi della società di trasporti amministrata dal ricorrente.
Né appare fondata l’ulteriore doglianza difensiva (motivo 5), con cui si censura il difetto di motivazione in ordine al mancato recepimento delle conclusioni del consulente tecnico della difesa, ing. (omissis), e della deposizione del teste (omissis), autista della (omissis), dovendosi al contrario rilevare che i giudici di merito non hanno affatto ignorato le prove addotte dalla difesa, ma ne hanno valutato con rigore la portata e l’effettivo spessore dimostrativo.
Ed invero, quanto alla deposizione del teste (omissis), è stato osservato che questi aveva sostanzialmente finito con il confermare sia che per un trasportatore che opera nel settore dei rifiuti era agevole conoscere la differenza tra il codice CER 191212 e il codice CER 191207, sia che i trasportatori, quando arrivavano presso la sede della (omissis), scaricavano nel piazzale, vedendo chiaramente cosa era stato trasportato dalla (omissis), sia ancora che nei trasporti con codice C.E.R. 191207 non potevano esserci né rifiuti ingombranti, perché stoccati solo all’entrata della (omissis), né metalli, come invece avveniva per i rifiuti conferiti presso l’impianto de quo.
Quanto alla consulenza tecnica dell’ing. (omissis), secondo cui il trasportatore non poteva percepire dal punto di vista organolettico la differenza tra i codici CER 191207 e CER 191212, le sentenze di merito (e in particolare quella di primo grado, richiamata sul punto da quella di appello), hanno replicato richiamando la deposizione del teste (omissis), dipendente della (omissis), secondo cui il legno, la plastica, il metallo e gli scarti venivano tenuti in baie distanti e separate, per cui nemmeno accidentalmente i rifiuti con C.E.R. 191212 potevano confluire in quelli con C.E.R. 191207, essendovi cioè piena consapevolezza da parte dei trasportatori sulla promiscuità dei materiali trasportati, anche perché i carichi trasferiti non contenevano qualche pezzo sminuzzato di plastica, ma materiali di varia natura, tra cui, in taluni casi, addirittura materassi e metalli.
Ciononostante, venivano effettuati trasporti presso l’impianto della (omissis) indicando nel documento di trasporto il C.E.R. 191207, anziché quello reale 191212, per eludere le analisi su questi rifiuti, per cui, sebbene i trasporti costassero in maniera uguale a prescindere dalla tipologia dei rifiuti trasportati, vi era un risparmio di spese sulle analisi che incideva sui costi aziendali.
Di qui la ragionevole conclusione della consapevole adesione da parte del legale rappresentante della (omissis) al traffico illecito dei rifiuti, e ciò anche alla luce del tenore della conversazione intercorsa tra l’imputato e (omissis), da cui emerge la conoscenza da parte del ricorrente del meccanismo volto a conseguire un risparmio di spesa da parte degli operatori coinvolti nel settore, rilevando il contenuto del dialogo e non certo la natura occasionale del contatto telefonico.
A fronte di un apparato argomentativo privo di elementi di illogicità, la difesa propone nel ricorso una lettura alternativa (e invero frammentaria) del materiale probatorio, che tuttavia non può ritenersi consentita in questa sede, anche perché già adeguatamente affrontata e superata nei gradi di merito.
Ne consegue anche il ricorso di (omissis) deve essere dichiarato inammissibile.
4. Possono essere infine trattati congiuntamente i ricorsi degli imputati (omissis), (omissis), (omissis), (omissis) e (omissis), i cui motivi, in termini sostanzialmente sovrapponibili, censurano l’erronea applicazione dell’art. 300 del d. lgs. 152/2006, contestando la condanna al risarcimento del danno in favore del Ministero dell’Ambiente, in base all’assunto secondo cui l’inquinamento dell’aria non costituirebbe un danno ambientale, in base all’art. 2 punto 1 della direttiva europea 2004/35, recepita dal vigente testo unico ambientale.
Orbene, anche sul punto le decisioni di merito resistono alle censure difensive.
Ed invero sia il Tribunale che la Corte di appello hanno individuato la fonte dell’obbligo risarcitorio nella prolungata immissione nell’ambiente di sostanze inquinanti, con conseguente pregiudizio alla salubrità dell’ambiente, derivante dalla illecita combustione di rifiuti con caratteristiche non conformi a quelle autorizzate, senza verifica dei parametri, venendo in particolare la lolla di riso miscelata con terre di spazzamento delle strade e reflui dei pozzetti di ispezione, con conseguente immissione nell’aria dei relativi composti chimici.
Esclusa ai sensi dell’art. 311 del d. lgs. 152/2006 l’applicazione di misure diverse da quelle compensantive, non essendo cioè possibile il ripristino, è stato dunque riconosciuto il risarcimento del danno in favore del Ministero dell’ambiente, ritenendosi ravvisabile un “danno ambientale” ex art. 300 del d. lgs. 152/2006.
Tale impostazione deve ritenersi senz’altro corretta, dovendosi evidenziare che il comma 1 dell’art. 300 del d. lgs. 152/2006 qualifica testualmente come danno ambientale “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”.
È invero già sufficiente fare riferimento a questa chiara definizione normativa per superare l’affermazione difensiva secondo cui l’inquinamento dell’aria non costituisce nel nostro ordinamento un danno ambientale, non essendovi dubbio sul fatto che l’aria costituisce una “risorsa naturale”, essendone anzi una delle più importanti, se non la più importante, per ogni essere animale e vegetale.
Non appare quindi dirimente il fatto che il comma 2 dell’art. 300, nel precisare che costituisce danno ambientale ai sensi della direttiva 2004/35/CE qualsiasi deterioramento, in confronto alle condizioni originarie, provocato a una serie di elementi naturali, non contenga alcun riferimento all’aria, ma soltanto alle specie e agli habitat protetti, alle acque (interne, marine e costiere) e al terreno.
Si tratta infatti di una specificazione che non vale certo a escludere l’aria dal novero delle risorse naturali menzionate al comma 1 dell’art. 300, ma che si limita unicamente a individuare una varietà di possibili danni che non esaurisce tuttavia la casistica delle ipotesi di danno ambientale suscettibili di rientrare nell’ampia definizione normativa riferita al “deterioramento” delle “risorse naturali”, dovendosi unicamente precisare che quest’ultimo è destinato ad assumere rilievo solo ove lo stesso si riveli “significativo e misurabile”, aspetti questi che invero nel caso di specie non risultano oggetto di contestazione.
Né può sottacersi, del resto, che la parte quinta del d. lgs. n. 152/2006 (art. 267 ss.) recante “norme in materia di tutela dell’aria e di riduzione delle emissioni in atmosfera”, contiene disposizioni volte a prevenire e reprimere l’inquinamento atmosferico, definito dall’art. 268 comma 1 lett. a) come “ogni modificazione dell’aria atmosferica, dovuta all’introduzione nella stessa di una o più sostanze in quantità e con caratteristiche tali da ledere o da costituire un pericolo per la salute umana o per le qualità dell’ambiente, oppure tali da ledere i beni materiali o compromettere gli usi legittimi dell’ambiente”, definizione questa che conferma ulteriormente l’immanenza e l’evidenza del legame esistente tra aria e ambiente.
D’altronde, la produzione normativa europea non contiene indicazioni di segno contrario: deve infatti evidenziarsi che al punto 4 dei “considerando” della direttiva 2004/35/CE del Parlamento europeo e del Consiglio del 21 aprile 2004, recepita dal d. lgs. 152/2006, è stato affermato che il danno ambientale include altresì il danno causato da elementi aerodispersi, nella misura in cui possono causare danni all’acqua, al terreno e alle specie e agli habitat naturali protetti, per cui non manca neanche nella direttiva un riferimento all’aria che, come detto, deve ritenersi insito nel citato richiamo alla nozione di risorse naturali, il cui deterioramento, “significativo e misurabile”, concretizza il danno ambientale.
Né appare pertinente il richiamo difensivo alla sentenza della Corte di giustizia (Seconda Sezione) del 13 luglio 2017, pronunciata nella causa C-129/16, relativa a un’ipotesi di inquinamento dell’aria verificatosi in Ungheria a causa di un incenerimento illegale di rifiuti, posto che dalla lettura della sentenza emerge che la domanda di pronuncia pregiudiziale verteva su una questione diversa da quelle oggetto di causa, ovvero la possibilità di una normativa nazionale di identificare, come responsabili in solido in caso di inquinamento e come destinatari di un’ammenda, non solo gli utilizzatori dei fondi in cui ha avuto origine l’inquinamento, ma anche i proprietari dei fondi, senza dimostrare l’esistenza di un nesso di causalità tra la loro condotta e l’inquinamento illecito.
Piuttosto, è ben più significativo che la predetta sentenza della Corte di giustizia non abbia messo in discussione la possibilità di ravvisare il danno ambientale nell’inquinamento dell’area derivante dal un trattamento illegale di rifiuti, ciò in coerenza con lo spirito stesso della direttiva, volta ad ampliare, anche attraverso i meccanismi riparatori ivi previsti, le forme di tutela in materia ambientale.
Ribadito che l’inquinamento dell’aria, ove “significativo e misurabile”, rientra nella nozione di danno ambientale ex art. 300 del d. lgs. 152/2006, deve quindi escludersi che la sentenza presenti, in ordine alle statuizioni civili, vizi rilevabili in questa sede, stante la pacifica legittimazione attiva del Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare a far valere la pretesa risarcitoria per il deterioramento dell’area originato dalla condotta illecita degli imputati.
Tale legittimazione trova allo stato il suo fondamento normativo nell’art. 311 comma 1 del d. lgs. 152/2006, norma la cui conformità alla Costituzione è stata ribadita con la sentenza n. 126 del 19 aprile 2016, depositata il 1° giugno 2016, con cui la Corte costituzionale ha affermato la coerenza della scelta legislativa di riservare a un ente statale la tutela di un «bene immateriale unitario» come l’ambiente, il che peraltro non esclude la legittimazione degli enti territoriali a costituirsi parte civile iure proprio, nel processo per reati che abbiano cagionato pregiudizi all’ambiente, per il risarcimento non del danno all’ambiente come interesse pubblico, ma dei danni direttamente subiti: danni diretti e specifici, ulteriori e diversi rispetto a quello, generico, di natura pubblica, della lesione dell’ambiente come bene pubblico e diritto fondamentale di rilievo costituzionale.
Quanto poi alla carenza motivazionale dedotta dalla difesa degli imputati (omissis) e (omissis) circa la provenienza delle sostanze nocive immesse dall’ambiente dai carichi provenienti dall’azienda (omissis), occorre evidenziare che tale censura presuppone una verifica fattuale che invero risulta adeguatamente compiuta in sede di merito, dove è stato accertato che i carichi di rifiuti illegali provenienti della (omissis) e trasportati nell’impianto dalla (omissis) con l’intermediazione della società di (omissis), erano tutt’altro che trascurabili, per cui la riconducibilità del conseguente inquinamento dell’aria anche alla condotta illecita degli imputati è scaturita non da mere asserzioni, ma da una razionale considerazione delle risultanze probatorie, peraltro non smentite in questa sede.
Di qui il giudizio di manifesta infondatezza delle censure difensive.
5. In conclusione, alla stregua delle considerazioni svolte, i ricorsi devono essere dichiarato inammissibili, con conseguente onere per ciascun ricorrente, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., di sostenere le spese del procedimento, nonché di provvedere, in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, in persona del Ministro pro tempore, liquidate come da dispositivo.
Tenuto conto infine della sentenza della Corte costituzionale n. 186 del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che i ricorsi siano stati presentati senza “versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità”, si dispone che ciascun ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di € 2.000 ciascuno in favore della Cassa delle Ammende, nonché, in solido tra loro, alla rifusione delle spese sostenute dalla parte civile, Ministero dell’Ambiente e della tutela del territorio e del mare, in persona del Ministro pro tempore, che liquida in complessivi € 3.000, oltre ad accessori di legge.
Così deciso il 03/07/2018