Il Decreto legge Mezzogiorno (entrato in vigore con la legge di conversione del 3 agosto 2017, n.123) ha sanato una falla normativa in base alla quale gli esercenti aggiravano l’art. 11, comma 2-bis, del D.L. 24 giugno 2014, n. 91 (c.d. “Decreto competitività”), convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, il quale stabiliva che le sanzioni per la commercializzazione dei sacchetti per l’asporto delle merci (“shoppers”) non conformi alle norme di cui al Decreto legge n. 2/2012 (entrato in vigore con la legge di conversione 24 marzo 2012, n. 28) erano direttamente applicabili dalla data di entrata in vigore della norma, ossia dal 21 agosto 2014.
Sono quindi confermati tutti i criteri di fondo della legge 28/2012 relativa alle sporte della spesa monouso: rimangono commercializzabili i soli shopper monouso biodegradabili e compostabili (ovvero quelli “mollicci” al tatto e ottenuti da amido di mais, di patata o poliestere) certificati Uni EN 13432 o quelli riutilizzabili con percentuali minime di plastica riciclata e spessori ricompresi tra 60 e 200 micron a seconda delle maniglie e degli usi (il contenuto di materia prima rinnovabile di almeno il 40%, che dovrà diventare il 50% a partire dal 1 gennaio 2020 e il 60% dal 1 gennaio 2021) determinato in base allo standard Uni Cen/Ts. Inoltre specifica che gli shopper per uso non alimentare sono solo quelli forniti negli esercizi che commercializzano esclusivamente merci e prodotti diversi dai generi alimentari. Non cambiano le sanzioni vigenti, con multe da 2.500 a 100.000 euro se la violazione del divieto riguarda ingenti quantitativi di borse di plastica oppure un se il valore delle buste fuori legge è superiore al 10% del fatturato del trasgressore.
Via dunque ai sacchetti senza marchio o con i marchi oggi fuorilegge in Italia, ovvero quelli in polietilene, polietilene a bassa densità e polietilene ad alta densità. Vietati anche i finti sacchetti ecologici (oxodegradabili in polietilene) che in realtà non sono biodegradabili e non sono compostabili anche se riportano scritte e diciture che richiamano all'ecologia e all'ambiente: sono fatti di polietilene (PE) addizionato di sostanze che alla luce frantumano in tanti pezzetti il sacchetto. Non possono essere utilizzati nemmeno i sacchetti di plastica riciclata, riconoscibili dal marchio “Plastica Seconda Vita”, che, grazie alla loro robustezza, si riutilizzano più volte e sono ottenuti da plastica proveniente dalla raccolta differenziata.
La conformità dei sacchetti può essere dimostrata in due modi:
- con la dicitura di conformità della norma EN 13432:2002 e cercare sul sacchetto la frase “Prodotto biodegradabile conforme alle normative comunitarie EN 13432” che di solito viene riportata lateralmente o nella zona frontale;
- recando uno dei marchi che attestano la certificazione della biodegradabilità, accompagnati da codice seguito da un numero (Sxxx o 7wxx) riferito a ogni azienda produttrice che deve assicurare anche la tracciabilità.
Mentre in passato il divieto non riguardava i sacchetti per imbustare frutta e verdura in polietilene utilizzati nei reparti ortofrutta dei vari negozi e market, non essendo ritenuti “da asporto” ma a “protezione” dell’alimento, a partire dal 1 gennaio 2018, che siano con o senza manici, anche i sacchi leggeri e ultraleggeri (ossia con spessore della singola parete inferiore a 15 micron) utilizzati per il trasporto di merci e prodotti, a fini di igiene o come imballaggio primario in gastronomia, macelleria, pescheria, ortofrutta e panetteria, devono essere biodegradabili e compostabili. Stop, quindi, anche alla pratica illegale in base alla quale i commercianti rendevano disponibili sacchetti con la scritti "sacchetti a uso interno" per aggirare la normativa.
|
Alcuni dei marchi che attestano la certificazione di biodegradabilità |
Ciò impatterà sicuramente in maniera positiva sull'ambiente, contribuendo soprattutto a ridurre i rifiuti di plastica che finiscono nelle acque interne e nei mari (p
er un'idea dell'immissione di buste di plastica da Tevere al Tirreno clicca qui). Riteniamo comunque che bisogni porre rimedio anche al problema delle etichette del prezzo che non essendo biodegradabili dovrebbero essere staccate dalle buste bio prima di essere utilizzare come sacchetto per il rifiuto organico domestico, dal momento che la legge non ha obbligato gli esercenti a utilizzare etichette compostabili. A tal proposito, in alcune catene di discount, frutta e verdura vengono pesate in cassa ed il prezzo viene stampato direttamente sullo scontrino senza generare una nuova etichetta.
Quello che lascia ci lascia perplessi è che le nuove buste non potranno essere distribuite gratuitamente e il prezzo di vendita dovrà risultare dallo scontrino o dalla fattura di acquisto delle merci: ovviamente non si parla del sacchetto preso in cassa per trasportare i prodotti acquistati, ma dei sacchetti considerati “leggerissimi”, quelli sotto i 15 micron di spessore, cioè quelli che servono per impacchettare la verdura sfusa e non per portare a casa la spesa, stabilendo non solo che devono essere biodegradabili e compostabili, ma anche che devono essere a pagamento. Perché non lasciare libera la scelta di farli pagare o meno al consumatore, precludendo la possibilità di avviare iniziative promozionali ambientali tra i vari esercenti? Perché obbligare i clienti a sobbarcarsi un costo che, per quanto minimo, è pur sempre fastidioso e rischia di orientarli verso prodotti pre-imballati, come quelli in vaschette di polistirolo?
|
In molti paesi europei si utilizzano sacchetti riutilizzabili in rete cellulosa in alternativa a quelli monouso |
Inoltre, il provvedimento - così come è - sembra porre un macigno su ogni buona pratica di riuso dei contenitori riutilizzabili, come quelli realizzati in juta, tessuto, polietilene, polipropilene, tessuto non tessuto, cotone, rete, carta. Se è vero che è in atto una discussione sul rischio sanitario connesso riutilizzo delle buste, potenzialmente esposte a contaminazione batterica di coliformi della famiglia delle
Enterobacteriaceae e nel 12% addirittura con tracce di
Escherichia coli (
a tal proposito, si veda questo studio dell'Università di Loma Linda, in California), in altri paesi sono stati introdotte valide alternative. In Svizzera, nelle Fiandre e in altre zone del nord Europa, ad esempio, vengono utilizzate sacchetti a rete realizzati in cellulosa certificata FSC, riutilizzabili e lavabili in lavatrice a 30°C: è anche possibile riporre diverse varietà di frutta e verdura nella stessa multi-bag incollando tutte le etichette dei prezzi all'esterno della rete.
Riteniamo pertanto che si debba porre mano al più presto alla correzione di tali aspetti, al fine di:
- eliminare l'obbligo di pagamento in capo ai clienti dei sacchetti biodegradabili e compostabili;
- rendere obbligatorio per gli esercenti l'utilizzo di etichette compostabili;
- rendere possibile l'utilizzo di sacchetti a rete riutilizzabili e lavabili, realizzati in cellulosa certificata FSC.