L’oggetto dello screening è, sostanzialmente, l’“impatto”, ovvero “alterazione” dell’ambiente lato sensu inteso, così come per la VIA: esso svolge però una funzione preliminare per così dire di “carotaggio”, nel senso che “sonda” la progettualità e solo ove ravvisi effettivamente una significatività della stessa in termini di incidenza negativa sull'ambiente, impone il passaggio alla fase successiva della relativa procedura; diversamente, consente di pretermetterla, con conseguente intuibile risparmio, sia in termini di costi effettivi, che di tempi di attuazione. Lo screening, dunque, data la sua complessità e l’autonomia riconosciutagli dallo stesso Codice ambientale che all’art. 20 (e, più di recente, all’art. art. 9, d.lgs. del 16 giugno 2017, n. 104) ne disciplina lo svolgimento, è esso stesso una procedura di valutazione di impatto ambientale, meno complessa della V.I.A., la cui previsione risponde a motivazioni comprensibilmente diverse. Per questo motivo è spesso definito in maniera impropria come un subprocedimento della V.I.A., pur non essendo necessariamente tale. Esso è qualificato altresì come preliminare alla V.I.A., dizione questa da intendere solo in senso cronologico, stante che è realizzato preventivamente, ma solo con riguardo a determinate tipologie di progetto rispetto alle quali alla valutazione vera e propria si arriva in via eventuale, in base cioè proprio all’esito in tal senso della verifica di assoggettabilità. Le categorie di progetti, quindi, che possono essere sottoposte alla verifica di assoggettabilità coincidono con quelle rispetto alle quali la V.I.A. è solo eventuale, ovvero, in estrema sintesi:
- progetti elencati nell’Allegato II al Codice che servono esclusivamente o essenzialmente per lo sviluppo ed il collaudo di nuovi metodi o prodotti e non sono utilizzati per più di due anni (screening di competenza statale);
- modifiche dei progetti elencati nell’Allegato II suscettibili di produrre effetti negativi e significativi per l’ambiente (screening di competenza statale);
- progetti elencati nell’Allegato IV (screening di competenza regionale).
La verifica di assoggettabilità, dunque, non può essere considerata una fase costitutiva ed imprescindibile della V.I.A., perché essa non deve essere esperita sempre, ma solo rispetto ai progetti appena elencati. Ne costituisce pertanto un elemento aggiuntivo eccezionale rispetto al normale iter, che per gli altri progetti prende avvio con la presentazione della relativa istanza.
La direttiva n. 2011/92/UE che ha armonizzato a livello comunitario la disciplina della V.I.A., specifica che lo screening può essere realizzato o mediante un’analisi caso per caso, oppure lasciando agli Stati membri la possibilità di fissare delle soglie dimensionali rispetto alle quali procedere o meno alla verifica di assoggettabilità. Suddetta direttiva è molto chiara nello specificare che, anche qualora si decidesse di fare riferimento ad un indicatore dimensionale, data la rilevanza che riveste lo screening (perché in base al suo esito si decide se procedere o meno ad effettuare la V.I.A.), occorrerebbe fare riferimento comunque anche a specifici criteri di selezione. Pertanto non è possibile escludere un progetto solo facendo riferimento alle sue dimensioni: occorre avere una visione d’insieme. Indicazione questa di innegabile rilevanza ai fini dello scrutinio della legittimità della decisione in termini di assoggettamento. I criteri in questione sono stati recepiti a livello nazionale nell’Allegato V, Parte II, del Codice ambientale. Essi sono molteplici, e spaziano dalle intrinseche caratteristiche del progetto (dimensioni, cumulo con altri progetti, produzione di rifiuti, utilizzazione delle risorse naturali, produzione di inquinamento e disturbi acustici, rischio di incidenti concernenti le tecnologie o sostanze utilizzate); alla sua localizzazione (capacità di assorbimento ambientale delle aree geografiche in cui verrà situato l’impianto, effetti su riserve e parchi naturali, zone costiere e montuose, zone a forte densità demografica); alle caratteristiche dell’impatto potenziale (portata dell’impatto, probabilità di accadimento dell’impatto, durata, frequenza e reversibilità dell’impatto). La ratio è evidentemente quella di garantire per quanto possibile il più elevato livello di tutela ambientale, senza tuttavia onerare inutilmente il cittadino richiedente.
I presupposti per la V.I.A. sono oggettivi, e riposano nel ricadere o meno di un certo progetto fra le tipologie per le quali la normativa contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006, o nelle leggi regionali, contempla la verifica ambientale, obbligatoriamente, ovvero facoltativamente, imponendo il legislatore la preliminare verifica di assoggettabilità (sul punto cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2403).
Ma leggiamo per intero la sentenza:
SENTENZA
Pubblicato il 07/09/2020
N. 05379/2020REG.PROV.COLL.
N. 04875/2012 REG.RIC.
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
Il Consiglio di Stato
in sede giurisdizionale (Sezione Seconda)
ha pronunciato la presente
SENTENZA
sul ricorso numero di registro generale 4875 del 2012, proposto dalla Regione Umbria, in persona del Presidente pro tempore, rappresentata e difesa dall’avvocato [omissis], con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato [omissis], nonché dall’avvocato [omissis], con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso l’Avvocatura regionale in Perugia, corso Vannucci, n. 30,
contro
la Società [omissis], in persona del legale rappresentante pro tempore, rappresentata e difesa dagli avvocati [omissis] e [omissis], con domicilio eletto presso lo studio dell’avvocato [omissis],
nei confronti
– il Comune di Gualdo Cattaneo, in persona del Sindaco pro tempore, non costituito in giudizio;
– la Provincia di Perugia, in persona del Presidente pro tempore, non costituita in giudizio;
per la riforma
della sentenza del Tribunale Amministrativo Regionale per l’Umbria, Sezione Prima, n. 152/2012, resa tra le parti, concernente procedura di assoggettabilità alla valutazione d’impatto ambientale di un impianto fotovoltaico.
Visti il ricorso in appello e i relativi allegati;
Visto l’atto di costituzione in giudizio della Società [omissis];
Visti tutti gli atti della causa;
Relatore, nell’udienza pubblica del giorno 7 luglio 2020, il Cons. Antonella Manzione e dati per presenti, ai sensi dell’art. 84, comma 5, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, i difensori delle parti;
Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.
FATTO
1. La Regione Umbria ha impugnato la sentenza del Tribunale amministrativo regionale per l’Umbria, sezione I, n. 152 del 26 aprile 2012, resa inter partes, la quale ha accolto, compensando le spese, il ricorso n. 448/2011, proposto dalla Società [omissis] (d’ora in avanti, per comodità, solo la Società) per l’annullamento della determinazione dirigenziale n. 4915 del 6 luglio 2011 che ha disposto la sottoposizione a valutazione di impatto ambientale (V.I.A.) del progetto relativo alla realizzazione di una centrale fotovoltaica di potenza pari a kw 4.999 in località “Colle del Marchese” nel Comune di Gualdo Cattaneo.
La sentenza appellata, individuata la norma di riferimento nell’art. 20 del d.lgs. n. 152/2006, come modificato dal d.lgs. n. 128/2010, ha ritenuto che la Regione abbia disposto l’assoggettamento a V.I.A. della progettualità di parte non sulla base della rilevata sussistenza di impatti significativi sull’ambiente, bensì della necessità di approfondimenti, siccome espressamente richiesto nel parere del Servizio VII “Valutazione del territorio e tutela del paesaggio e tecnologie dell’informazione” e del Servizio “Risorse idriche e rischio idraulico”. Ciò avrebbe comportato la statuizione di «vere e proprie prescrizioni nell’utilizzo del territorio, anche se imposte sub specie di prescrizioni per integrare la documentazione progettuale», incompatibili con il procedimento di screening, valorizzando peraltro le sole esigenze di tutela del paesaggio, e non quelle dell’ambiente complessivamente inteso. Sarebbe inoltre stato violato l’art. 10 bis della l. n. 241/1990, essendo il preavviso di diniego vieppiù necessario stante le sostanziali richieste integrative, conoscendo preventivamente le quali la parte avrebbe potuto proficuamente interloquire con l’Amministrazione scongiurando l’esito negativo del procedimento.
2. L’appello contesta diffusamente le argomentazioni della sentenza impugnata, chiedendone l’annullamento, con rigetto del ricorso di primo grado. Nello specifico, con un primo motivo di gravame la difesa erariale ha riproposto la doglianza relativa alla formulazione della norma applicata (art. 20 del d.lgs. n. 152/2006), ritenendo che la mancata adozione all’epoca dei fatti di cui in controversia dei provvedimenti regionali attuativi imponesse di avere riguardo alla stesura antecedente la novella di cui al d.lgs. n. 128/2010. Nel merito, ha ribadito la correttezza dell’operato dell’Amministrazione, che ha fondato il proprio giudizio sul parere di ben tre Servizi interni coinvolti per competenza, e non soltanto su quello del Servizio VII. La natura preliminare della valutazione di screening, infine, renderebbe inapplicabile, in assenza di un vero e proprio diniego, la disciplina sul relativo preavviso. “Per mero scrupolo difensivo”, la Regione ha altresì inteso contestare nuovamente le doglianze promosse nel ricorso di primo grado avverso i singoli pareri istruttori, indebitamente attinenti al merito della discrezionalità amministrativa, e come tali inammissibili.
3. Si è costituita per resistere all’appello la Società con atto di stile, successivamente integrato con dettagliata memoria in controdeduzione. Oltre a ribadire l’applicabilità ratione temporis dell’art. 20 del d.lgs. n. 152/2006 novellato dal d.lgs. n.128/2010, ha chiesto la conferma della sentenza di prime cure, laddove ha ritenuto insufficientemente motivato con riferimento al potenziale pregiudizio ambientale il provvedimento impugnato. Privi di rilievo sarebbero al riguardo i richiami ai principi europei di precauzione e prevenzione, invocati dalla Regione appellante, che comunque non possono imporre l’assoggettamento a V.I.A. su base meramente probabilistica di pregiudizio per l’ambiente. Le modifiche progettuali richieste documenterebbero la mancata valutazione del significativo impatto ambientale richiesta dalla norma ai fini della decisione di assoggettare il progetto a V.I.A. Infine, la natura autonoma del procedimento di screening rispetto a quello di vera e propria V.I.A., avrebbe imposto l’inoltro del preavviso di rigetto, siccome affermato dal T.A.R. per l’Umbria.
In vista dell’odierna udienza le parti hanno depositato rispettivamente memoria e memoria di replica, la Regione argomentando anche sulla base della sentenza del T.A.R. per il Veneto n. 52 del 20 gennaio 2016, asseritamente attinente a fattispecie analoga, laddove la Società ne ha contestato la conferenza al caso di specie.
4. La causa è passata in decisione in data 7 luglio 2020, ai sensi della normativa emergenziale di cui all’art. 84, commi 5 e 6, del decreto-legge 17 marzo 2020, n. 18, convertito in legge, con modificazioni, dalla legge 24 aprile 2020, n. 27.
DIRITTO
5. Il ricorso è fondato e merita accoglimento, salvo quanto di seguito precisato con riferimento al primo motivo di doglianza.
6. Oggetto dell’odierna controversia è la correttezza del procedimento di valutazione preliminare (cd. screening), volto a decidere l’assoggettamento o meno a V.I.A. di un determinato intervento, nel caso di specie riferito alla realizzazione di una centrale fotovoltaica. Trattasi di una fase preliminare, ma non necessariamente propedeutica alla V.I.A., in quanto funzionale proprio ad evitarne l’attivazione, la cui disciplina procedurale è contenuta in dettaglio nell’art. 20 del d.lgs. n. 152/2006.
7. Al fine di compiutamente inquadrare l’odierna controversia, il Collegio ritiene necessario premettere una breve ricostruzione della cornice giuridica che governa la materia.
Il d.lgs. 3 aprile 2006, n. 152, cosiddetto Codice dell’Ambiente, dopo aver tracciato nel Titolo I della Parte II le linee generali e definitorie degli istituti della V.I.A., della V.A.S. (valutazione ambientale strategica) e della autorizzazione integrata ambientale (A.I.A.), ne descrive analiticamente il procedimento nelle disposizioni successive.
Per quanto qui di interesse, la V.I.A. è configurata come procedura amministrativa di supporto per l’autorità competente finalizzata ad individuare, descrivere e valutare gli impatti ambientali di un’opera, il cui progetto è sottoposto ad approvazione o autorizzazione. In altri termini, trattasi di un procedimento di valutazione ex ante degli effetti prodotti sull’ambiente da determinati interventi progettuali, il cui obiettivo è proteggere la salute umana, migliorare la qualità della vita, provvedere al mantenimento delle specie, conservare la capacità di riproduzione dell’ecosistema, promuovere uno sviluppo economico sostenibile (cfr. art. 3, direttiva n. 85/337/CEE e successive modifiche apportate dalla direttiva n. 97/11/CE). Essa mira a stabilire, e conseguentemente governare in termini di soluzioni più idonee al perseguimento di ridetti obiettivi di salvaguardia, gli effetti sull’ambiente di determinate progettualità. Tali effetti, comunemente sussumibili nel concetto di “impatto ambientale”, si identificano nella alterazione “qualitativa e/o quantitativa, diretta ed indiretta, a breve e a lungo termine, permanente e temporanea, singola e cumulativa, positiva e negativa” che viene a prodursi sull’ambiente, laddove quest’ultimo a sua volta è identificato in un ampio contenitore, costituito dal “sistema di relazioni fra i fattori antropici, naturalistici, chimico-fisici, climatici, paesaggistici, architettonici, culturali, agricoli ed economici, in conseguenza dell’attuazione sul territorio di piani o programmi o di progetti nelle diverse fasi della loro realizzazione, gestione e dismissione, nonché di eventuali malfunzionamenti” (art. 5, comma 1, lett. b) e c), del d.lgs. n. 152/2006).
8. Anche l’oggetto dello screening è, sostanzialmente, ridetto “impatto”, ovvero “alterazione” dell’ambiente lato sensu inteso: solo che esso svolge una funzione preliminare per così dire di “carotaggio”, nel senso che “sonda” la progettualità e solo ove ravvisi effettivamente una significatività della stessa in termini di incidenza negativa sull’ambiente, impone il passaggio alla fase successiva della relativa procedura; diversamente, consente di pretermetterla, con conseguente intuibile risparmio, sia in termini di costi effettivi, che di tempi di attuazione.
Lo screening, dunque, data la sua complessità e l’autonomia riconosciutagli dallo stesso Codice ambientale che all’art. 20 (e, più di recente, all’art. art. 9, d.lgs. del 16 giugno 2017, n. 104) ne disciplina lo svolgimento, è esso stesso una procedura di valutazione di impatto ambientale, meno complessa della V.I.A., la cui previsione risponde a motivazioni comprensibilmente diverse. Per questo motivo è spesso definito in maniera impropria come un subprocedimento della V.I.A., pur non essendo necessariamente tale. Esso è qualificato altresì come preliminare alla V.I.A., dizione questa da intendere solo in senso cronologico, stante che è realizzato preventivamente, ma solo con riguardo a determinate tipologie di progetto rispetto alle quali alla valutazione vera e propria si arriva in via eventuale, in base cioè proprio all’esito in tal senso della verifica di assoggettabilità.
Le categorie di progetti, quindi, che possono essere sottoposte alla verifica di assoggettabilità coincidono con quelle rispetto alle quali la V.I.A. è solo eventuale, ovvero, in estrema sintesi: 1) progetti elencati nell’Allegato II al Codice che servono esclusivamente o essenzialmente per lo sviluppo ed il collaudo di nuovi metodi o prodotti e non sono utilizzati per più di due anni (screening di competenza statale); 2) modifiche dei progetti elencati nell’Allegato II suscettibili di produrre effetti negativi e significativi per l’ambiente (screening di competenza statale); 3) progetti elencati nell’Allegato IV (screening di competenza regionale). Nel caso di specie, come esplicitato nel provvedimento impugnato, l’intervento è da ricondurre a questi ultimi, categoria progettuale di cui al punto 2, lettera c), recante “Impianti industriali non termici per la produzione di energia, vapore ed acqua calda con potenza complessiva superiore a 1 MW”.
La verifica di assoggettabilità, dunque, non può essere considerata una fase costitutiva ed imprescindibile della V.I.A., perché essa non deve essere esperita sempre, ma solo rispetto ai progetti appena elencati. Ne costituisce pertanto un elemento aggiuntivo eccezionale rispetto al normale iter, che per gli altri progetti prende avvio con la presentazione della relativa istanza.
8.1. La direttiva n. 2011/92/UE che ha armonizzato a livello comunitario la disciplina della V.I.A., specifica che lo screening può essere realizzato o mediante un’analisi caso per caso, oppure lasciando agli Stati membri la possibilità di fissare delle soglie dimensionali rispetto alle quali procedere o meno alla verifica di assoggettabilità. Suddetta direttiva è molto chiara nello specificare che, anche qualora si decidesse di fare riferimento ad un indicatore dimensionale, data la rilevanza che riveste lo screening (perché in base al suo esito si decide se procedere o meno ad effettuare la V.I.A.), occorrerebbe fare riferimento comunque anche a specifici criteri di selezione. Pertanto non è possibile escludere un progetto solo facendo riferimento alle sue dimensioni: occorre avere una visione d’insieme. Indicazione questa di innegabile rilevanza ai fini dello scrutinio della legittimità della decisione in termini di assoggettamento.
I criteri in questione sono stati recepiti a livello nazionale nell’Allegato V, Parte II, del Codice ambientale. Essi sono molteplici, e spaziano dalle intrinseche caratteristiche del progetto (dimensioni, cumulo con altri progetti, produzione di rifiuti, utilizzazione delle risorse naturali, produzione di inquinamento e disturbi acustici, rischio di incidenti concernenti le tecnologie o sostanze utilizzate); alla sua localizzazione (capacità di assorbimento ambientale delle aree geografiche in cui verrà situato l’impianto, effetti su riserve e parchi naturali, zone costiere e montuose, zone a forte densità demografica); alle caratteristiche dell’impatto potenziale (portata dell’impatto, probabilità di accadimento dell’impatto, durata, frequenza e reversibilità dell’impatto).
La ratio è evidentemente quella di garantire per quanto possibile il più elevato livello di tutela ambientale, senza tuttavia onerare inutilmente il cittadino richiedente.
Il procedimento ha inizio con una fase introduttiva che consiste nella presentazione dell’istanza di assoggettabilità all'autorità competente del caso, con allegato il progetto preliminare, i cui contenuti saranno ovviamente meno specifici rispetto a quanto richiesto in sede di V.I.A. vera e propria. Segue poi una fase di pubblicità con la quale viene data informazione dell’avvio della procedura, nella quale il soggetto proponente ha l’obbligo di pubblicare un avviso circa l’effettivo deposito dell’istanza, per quanto qui di interesse presso il Bollettino Ufficiale della Regione e presso l’Albo Pretorio del Comune interessato per territorio. Entro un termine prestabilito (all'epoca dei fatti, 45 giorni) dalla pubblicazione, l’autorità competente deve accertare se il progetto sia suscettibile o meno di ripercussioni negative e apprezzabili sull'ambiente, sulla base delle eventuali osservazioni presentate dai soggetti interessati, ma anche, come già ricordato, degli indicatori oggettivi di tollerabilità descritti nell'Allegato V del Codice. Entro il medesimo lasso di tempo, può altresì richiedere, per una sola volta, l’integrazione di documenti utili a formulare un giudizio di esclusione o meno del progetto dalla procedura della V.I.A. Precisazione questa non priva di rilievo per la corretta connotazione del procedimento de quo, come meglio chiarito nel prosieguo.
9. Rileva dunque la Sezione come i presupposti per la V.I.A. siano oggettivi, e riposino nel ricadere o meno di un certo progetto fra le tipologie per le quali la normativa contenuta nel d.lgs. n. 152 del 2006, o nelle leggi regionali, contempla la verifica ambientale, obbligatoriamente, ovvero facoltativamente, imponendo il legislatore la preliminare verifica di assoggettabilità (sul punto cfr. Cons. Stato, sez. IV, 12 maggio 2014, n. 2403).
Quanto detto rende evidente la peculiarità dell’autonomia del procedimento di screening, che non si conclude mai con un diniego di V.I.A., bensì con un giudizio di necessità di sostanziale approfondimento. In altre parole, il rapporto tra i due procedimenti appare configurabile graficamente in termini di cerchi concentrici caratterizzati da un nucleo comune rappresentato dalla valutazione della progettualità proposta in termini di negativa incidenza sull’ambiente, nel primo caso in via sommaria e, appunto, preliminare, nel secondo in via definitiva, con conseguente formalizzazione del provvedimento di avallo o meno della stessa. La “verifica di assoggettabilità”, come positivamente normata, anticipa sostanzialmente la valutazione di impatto, delibandone l’opportunità, sulla base della ritenuta sussistenza prima facie dei relativi presupposti, «con la conseguenza che l’attività economica, libera sulla base della nostra Costituzione, non possa che svolgersi nel pieno rispetto delle normative di tutela ambientale» (T.A.R. Abruzzo, L’Aquila, 18 febbraio 2013, n. 158; T.A.R. Sardegna, sez. II, 30 marzo 2010 n. 412; T.A.R. Friuli-Venezia Giulia, 9 aprile 2013, n. 233).
10. Quanto detto consente di collocare correttamente il richiamo da parte dell’appellante ai principi europei di precauzione e prevenzione, quali necessario postulato del giudizio, solo ipotetico, di nocività per l’ambiente sotteso alla procedura di assoggettabilità. Se è vero, infatti, che essi non possono essere intesi nel senso della meccanicistica imposizione della V.I.A. ogniqualvolta insorga un – peraltro immotivato – dubbio sulla probabilità di danno all’ambiente, con ciò vanificando la portata della specifica disciplina; lo è egualmente che la logica di tutela dell’ambiente, e non certo di punizione, sottesa all’assoggettamento a V.I.A., non può non orientare verso la stessa in tutti i casi in cui si ritenga necessario un approfondimento progettuale ben più pregnante della mera integrazione e chiarimento richiedibile in fase di screening. Disquisire circa la necessità di esplicitare il grado di verificabilità del nocumento ambientale in termini possibilistici, piuttosto che probabilistici, equivale ad introdurre limitazioni alla discrezionalità amministrativa non desumibili dalla norma: è chiaro, infatti, che deve trattarsi di un giudizio di prognosi, intrinseco alla sua effettuazione preventiva; ma lo è altrettanto che laddove per fattori obiettivamente esternati se ne ipotizzi la lesività, appare corretto cautelarsi – rectius, più propriamente, cautelare la collettività e quindi, in senso più ampio, l’ambiente – non impedendo la realizzazione dell’intervento, ma semplicemente imponendo l’approfondimento dei suoi esiti finali. Ove, infatti, si aderisse alla tesi opposta, ovvero si pretendesse nella fase di screening lo stesso approfondimento di potenziale lesività ambientale che connota la V.I.A. vera e propria, non se ne comprenderebbe la reiterazione in tale fase successiva, ridotta sostanzialmente ad un inutile duplicato di quanto già preliminarmente accertato.
La sottoposizione a V.I.A., dunque, ben può conseguire ad una scelta di cautela, seppur adeguatamente motivata in relazione a fattori di oggettiva pericolosità rivenienti dagli indici di cui all’Allegato V al Codice ambientale, stante che ciò implica solo il rinvio ad un più approfondito scrutinio della progettualità proposta, che dalle ragioni dello stesso non risulta comunque in alcun modo condizionata.
11. I criteri cui l’Autorità competente deve attenersi nella valutazione di screening sono indicizzati, come già chiarito al § 8, nell’allegato V al d.lgs. n. 152/2006, cui l’art. 20 fa espresso richiamo, unitamente alle osservazioni che chiunque vi abbia interesse abbia fatto pervenire dopo la pubblicazione della progettualità. Non è chi non veda come manchino indicatori obiettivi sia della negatività, sia del livello di incidenza della stessa sull’ambiente, essendo rimesso alla più ampia discrezionalità del valutatore il giudizio finale circa la potenziale lesività per il contesto di ciascuna progettualità, ex se ovvero in relazione allo stesso. Ne emerge tuttavia la necessità che si addivenga ad un giudizio di natura complessiva, di compatibilità ambientale, appunto, all’interno del quale l’impatto sul paesaggio non esaurisce tutte le possibili sfaccettature, ma non per questo soltanto si palesa insufficiente a motivare non una valutazione negativa, bensì la necessità di effettuazione della stessa. In sintesi, l’accentuata rilevanza data alla tutela del paesaggio quale mera componente dell’ambiente complessivamente inteso, comprensivo delle istanze economiche che confluiscono al suo interno, non inficia di per sé il provvedimento impugnato. Ciò sia perché la stessa nozione di paesaggio cui il parere – e conseguentemente il provvedimento finale – fa riferimento è intesa in senso letterale, piuttosto che giuridico, essendosi dato espressamente atto che “l’area occupata dall’impianto in oggetto non ricade all’interno di una zona vincolata, ma insiste in un ambito territoriale [solo] adiacente un’area boscata sottoposta [essa sì] a tutela paesaggistica ai sensi dell’art. 142, comma 1, lett. g) del D.Lgs.n.42/2004”; sia perché tale parere, e la sottesa salvaguardia del paesaggio rurale, che la zona interessata dall’intervento rischia di incidere negativamente, non costituisce l’unica motivazione della scelta effettuata dalla Regione, ancorché ne rappresenti la parte maggiormente sviluppata.
12. Vero è che l’Amministrazione, nel formulare il giudizio sull’impatto ambientale, esercita un’amplissima discrezionalità che non si esaurisce in una mera valutazione tecnica, come tale suscettibile di verificazione tout court sulla base di oggettivi criteri di misurazione, ma presenta al contempo profili particolarmente intensi di discrezionalità amministrativa ed istituzionale in relazione all’apprezzamento degli interessi pubblici e privati coinvolti, con la conseguenza che il sindacato del giudice amministrativo in materia è necessariamente limitato alla manifesta illogicità ed incongruità, al travisamento dei fatti o a macroscopici difetti di istruttoria (come nei casi in cui l’istruttoria sia mancata o sia stata svolta in modo inadeguato, e sia perciò evidente lo sconfinamento del potere discrezionale riconosciuto all’Amministrazione: cfr., Cons. St., sez. V, 27 marzo 2013, n. 1783 e sez. VI, 11 febbraio 2004, n. 458; T.A.R. Lombardia, sez. III, 8 marzo 2013, n. 627) o quando l’atto sia privo di idonea motivazione, dato che il modello procedimentale vigente nel nostro ordinamento impone all’autorità procedente di esplicitare le ragioni sulla base delle quali è stata effettuata la comparazione tra i benefici dell’opera da un lato e, dall’altro, i potenziali impatti pregiudizievoli per l’ambiente, con riferimento ai contributi istruttori acquisiti nel corso del procedimento (v. T.A.R. Marche, 9 gennaio 2014 n. 31). Discrezionalità, rileva ancora il Collegio, ancor più rilevante con riferimento alla fase di screening, connotata da una sostanziale sommarietà, e, conseguentemente, doverosamente ispirata a più rigorose esigenze di cautela: in pratica, la soglia di negatività ed incisività dell’impatto può paradossalmente essere ritenuta travalicabile con margini più ampi in sede di delibazione preliminare, proprio perché di per sé non preclusiva degli esiti della successiva V.I.A.
13. Il Consiglio di Stato ha già avuto modo di affermare, con orientamento che la Sezione condivide, che «fin dal loro ingresso nell’ordinamento (D.P.R. 12 aprile 1996), le procedure di VIA e di screening, pur inserendosi sempre all’interno del più ampio procedimento di realizzazione di un’opera o di un intervento, sono state considerate da dottrina e giurisprudenza prevalenti come dotate di autonomia, in quanto destinate a tutelare un interesse specifico (quello alla tutela dell’ambiente), e ad esprimere al riguardo, specie in ipotesi di esito negativo, una valutazione definitiva, già di per sé potenzialmente lesiva dei valori ambientali» (Cons. Stato, sez. IV, 3 marzo 2009, n. 1213). Questo è il motivo per il quale anche gli atti conclusivi della procedura di screening, seppure connotati dal rilevato grado di provvisorietà, nell’accezione meglio esplicitata, sono stati ritenuti immediatamente impugnabili dai soggetti interessati alla protezione di quei valori, ovvero dal privato che ritenga immotivato l’aggravio procedurale impostogli. Con ciò erroneamente connotando in termini di indebito onere aggiuntivo, ciò che costituisce la regola a tutela dell’ambiente, nonché evidentemente confondendo la – spesso lamentata – farraginosità e lunghezza del procedimento di V.I.A. (sul quale, pertanto, il legislatore è reiteratamente intervenuto con finalità di semplificazione), con la essenziale finalità di tutela ambientale che ne connota l’avvenuta introduzione.
La direttiva n. 85/337/CEE (successivamente modificata dalla direttiva n. 97/11/CE), ispirata al modello statunitense di Environmental Impact Statement e a quello francese di Étude d’Impact, nel disporre l’obbligatorietà dell’istituto per tutti gli Stati membri, ha individuato nella valutazione di un progetto, sia un profilo oggettivo, facente riferimento alla possibile incidenza di un progetto su diversi fattori, che un profilo esecutivo, consistente nell’individuazione di effetti negativi e di portata considerevole sul patrimonio ambientale. Entrambi i profili sono stati recepiti al livello nazionale nell’attuale Codice ambientale che, come visto, non solo definisce la V.I.A. e il relativo procedimento, ma ne declina anche l’ambito di azione, delineando altresì nello stesso modo il giudizio preventivo di assoggettabilità.
14. L’art. 20 del d.lgs. n. 152/2006, relativo al procedimento di verifica di assoggettabilità, ha subìto successive interpolazioni volte a semplificarne lo svolgimento e renderne più certe le scansioni temporali, a riprova della ritenuta strategicità dello stesso nell’ambito della progettualità privata. Non a caso, sulla norma si è da ultimo intervenuti anche con il d.l. 16 luglio 2020, n. 76, recante “Misure urgenti per la semplificazione e l’innovazione digitale”.
Per quanto qui di interesse, è in contestazione l’applicabilità o meno della versione novellata con d.lgs. 29 giugno 2010, n. 128, con ciò implicitamente lasciando intendere di individuare nelle modifiche apportate una richiesta di maggior pregnanza del giudizio preliminare. La riforma, tuttavia, ha inciso anche sulla più generale parte definitoria, integrando, ad esempio, l’art. 6, comma 5, del d.lgs. n. 152/2006 con l’introduzione accanto all’aggettivo “significativi” con il quale erano connotati gli impatti ambientali del progetto esaminando nella V.I.A. vera e propria, anche quello “negativi”. Tale endiadi che vuole verificato sia il disvalore dell’intervento in termini qualitativi, sia l’entità dello stesso in termini quantitativi (la significatività, appunto) connota dunque tanto la valutazione preliminare, che la V.I.A.
In effetti a ben guardare la vera portata della novella non si concretizza certo e solo nella modificata aggettivazione, bensì in più radicali interventi, anche definitori (si pensi alla nuova stesura della stessa dizione di V.I.A.), nonché di modifica dei presupposti di utilizzabilità della delibazione preliminare (comma 7). La necessità, dunque, che si sommi un giudizio di valore in assoluto ad un giudizio di “intensità”, non costituisce una novità del legislatore del 2010, che coglie l’occasione della riforma per un’operazione di generale restyling in termini di drafting, caso mai confermando la omogeneità oggettiva dei procedimenti in esame. In sintesi, l’intensità crescente del giudizio, sostanzialmente identico per contenuto, costituisce il discrimine, comprensibilmente chiaroscurale, tra possibilità di arresto al primo step e passaggio doveroso alla fase successiva.
Da qui, sotto tale profilo, la neutralità della riforma agli effetti in controversia, come da ultimo riconosciuto dalla stessa Regione appellante.
15. Afferma dunque la Regione che al caso di specie troverebbe applicazione l’art. 20 del d.lgs. n. 152/2006 nella versione previgente alla novella apportata con il d.lgs. n. 128/2010. Ciò in quanto l’art. 4, comma 4, dello stesso prevede un termine di dodici mesi entro il quale le Regioni e le Province autonome avrebbero dovuto adeguare i propri ordinamenti, cosa che la regione Umbria ha fatto solo con la delibera di Giunta n. 861 del 26 luglio 2011, successiva all’adozione del provvedimento impugnato. La ricostruzione proposta troverebbe conforto anche nella disciplina transitoria generale contenuta nell’art. 35 del d.lgs. n. 152/2006, che demanda egualmente alle Regioni l’onere “ove necessario” di adeguare i propri ordinamenti alle disposizioni del medesimo Testo unico ambientale.
L’assunto non è condivisibile.
Come correttamente richiamato dal giudice di prime cure, solo le procedure di V.A.S., V.I.A. ed A.I.A. avviate precedentemente all’entrata in vigore del decreto dovevano essere concluse ai sensi delle norme vigenti al momento dell’avvio del procedimento, giusta l’esplicita previsione in tal senso contenuta nel comma 5 del richiamato art. 4 del d.lgs. n. 128/2010. Nel caso di specie, se è vero che l’istanza originaria era stata presentata il 2 febbraio 2010, lo è altrettanto che essa è stata interamente sostituita, a seguito di interlocuzioni con l’Amministrazione, con una nuova del 30 marzo 2011, che ha comportato la riduzione della potenza originaria da Kw. 5.896,80 a 4.999, progettualità intorno alla quale si è sviluppato l’intero procedimento in contestazione. Al di fuori di tale specifica indicazione derogatoria, non possono che valere i principi generali del tempus regit actum rivenienti dall’art. 10 delle disposizioni preliminari al codice civile.
Né in senso contrario può essere intesa la disciplina di cui all’art. 35 del T.U.A., che impone l’onere alle Regioni di adeguare i propri ordinamenti ai principi della cornice nazionale, con salvezza, nelle more di ridetto adeguamento, delle disposizioni locali comunque già compatibili con la stessa. Di ciò peraltro è data conferma finanche nella invocata normativa regionale attuativa, che secondo l’Amministrazione appellante condizionerebbe l’entrata in vigore della novella: la delibera n. 861/2011, infatti, individua nell’immediato accorgimenti tecnici da seguire nelle procedure de quibus allo scopo di garantire da subito una minima conformazione alle (vigenti) indicazioni nazionali, nelle more dell’adeguamento normativo previsto.
Per tale ragione, il primo motivo di appello deve essere respinto, confermandosi sul punto la ricostruzione effettuata dal giudice di prime cure.
16. Occorre ancora ricordare il fatto che la nozione di “ambiente” con riferimento alla quale valutare, in via preliminare o meno, l’impatto, è assai più ampia di quella di paesaggio, implicando peraltro una contestualizzazione dell’intervento in chiave anche comparativa con i benefici rivenienti dalla sua realizzazione, siccome peraltro derivante anche dal ricostruito quadro normativo. Correttamente, pertanto, il T.A.R. ne afferma tale portata più generale: salvo tuttavia argomentare in senso critico nei confronti del parere del responsabile del Servizio VII, in quanto incentrato esclusivamente su tale esigenza di salvaguardia e per giunta contraddittoriamente formulato in termini di proposte integrazioni progettuali.
La determinazione dirigenziale n. 4915 del 6 luglio 2011, tuttavia, diversamente da quanto affermato dal primo giudice, dopo aver ricostruito i passaggi procedurali seguiti, ivi compreso l’esito, sostanzialmente infruttuoso per assenza di partecipanti, della Conferenza istruttoria del 9 giugno 2011, richiama espressamente i pareri definitivi del Servizio “Geologico e sismico” (prot. n. 82502 del 6 giugno 2011), del Servizio “Qualità dell’ambiente, gestione rifiuti ed attività estrattive” (prot. n. 86832 del 16 giugno 2011) e del Servizio “Risorse idriche e rischio idraulico” (prot. 84830 del 14 giugno 2011), almeno due dei quali egualmente indirizzati alla necessità di sottoporre il progetto a V.I.A. In particolare, il primo di essi, dopo aver ricordato la presenza nella zona di una frana quiescente e di fenomeni di ruscellamento e di erosione lineare, conclude affermando a chiare lettere tale necessità, a prescindere dalla allocazione dell’impianto direttamente sulla zona in questione, ovvero in area limitrofa, sulla base peraltro di richiamate verifiche tecniche.
Il T.A.R. per l’Umbria, tuttavia, nel non dare rilievo alla sommatoria di tali risultanze istruttorie, tutte richiamate per relationem nella motivazione dell’atto avversato, concentrandosi sulla asserita “centralità” – rectius, esclusività – del parere, pure esaustivo, del Servizio VII, omette di evidenziare le altre circostanze rivenienti da quest’ultimo. In esso infatti, oltre a richiamare gli elementi qualificanti per il paesaggio, seppur non vincolati, quali “formazioni lineari arborate e qualche quercia isolata” si evidenzia anche che “in prossimità dell’area di intervento è stato già realizzato un impianto fotovoltaico che non risulta essere progettualmente considerato nella valutazione dell’impatto paesaggistico visivo prodotto dall’effetto cumulo di più impianti”. Cumulo che, come già detto, costituisce uno degli indici di localizzazione espressamente individuati Allegato V al T.U.A. al fine di indirizzare lo screening.
17. Afferma ancora l’art. 20 del d.lgs. n. 152/2006 che l’autorità competente può, per una sola volta, richiedere integrazioni documentali o chiarimenti al proponente; a contrario, essa non può imporre prescrizioni, siccome sarebbe accaduto nel caso di specie recependo le indicazioni in tal senso contenute nel parere del Servizio VII (quali, ad esempio, la creazione di schermature vegetali per migliorare l’impatto visivo, utilizzando essenze autoctone con ecotipi locali).
Il Collegio, pur condividendo la rilevata ridondanza del parere utilizzato, non ritiene di poterne trarre le medesime conclusioni. Il rilevato impatto sul paesaggio, infatti, è descrittivamente enfatizzato indicando i possibili rimedi alla alterazione della visuale: ciò non ne implica affatto l’imposizione in termini di modifica progettuale alla parte, rispondendo piuttosto alla logica di evidenziare le criticità, attraverso la prospettazione dei rimedi, necessari proprio in ragione della loro ritenuta sussistenza. In sintesi, nessuna prescrizione è stata concretamente imposta alla parte, per l’evidente ragione che in sede di screening solo l’esito positivo ne avrebbe consentito la formulazione, per corroborare la scelta minimalista effettuata. Il che non si è verificato nel caso di specie.
18. E’ dunque fondato il secondo motivo di appello con il quale si sostiene la esaustività della motivazione del provvedimento impugnato: diversamente da quanto affermato dal T.A.R., infatti, l’atto trae fondamento nel parere negativo di ben tre dirigenti di settore, tra i quali anche, ma non solo, quello del Servizio “Valorizzazione e tutela del paesaggio, tecnologie dell’informazione”, del quale viene mutuato anche il contenuto propositivo, non assimilabile all’imposizione di prescrizioni.
E’ la convergenza di tutti i fattori critici rivenienti da tali pareri che determina la negatività del giudizio e la sua consistente incidenza: da un lato, dunque, si stigmatizza l’impatto visivo della progettualità proposta, dall’altro se ne evoca quello ambientale sotto il profilo geologico e geomorfologico ovvero l’estensione in relazione alla presenza nelle vicinanze di centri abitati. La semplice lettura, sia del provvedimento impugnato sia dei pareri richiamati, consente di rilevare come la valutazione di assoggettare a V.I.A. il progetto presentato dalla Società sia stata motivata adducendo una pluralità di argomentazioni, peraltro queste ultime espressamente menzionate dalla stessa ricorrente nel ricorso di primo grado, al termine di una complessa attività istruttoria.
Alla conclusione di detto iter procedimentale sono stati individuati gli impatti sull’ambiente del progetto così determinati: 1) dalle possibili problematiche di tipo geologico e geomorfologiche; 2) dall’impatto sulla visuale, in ragione dello stato dei luoghi e delle zone vicine; 3) dalla necessità di cumulare tale impatto con la presenza di un altro impianto, siccome previsto espressamente dall’Allegato V al T.U.A.. Ne consegue che, in presenza di un numero così ampio di elementi, ciascuno di essi sufficiente a far ritenere sussistente una situazione di potenziale rischio per l’ambiente, inclusivo del paesaggio, che non ne esaurisce la portata ma può assumere rilevanza predominante – elementi così determinati a seguito di un contraddittorio con la ricorrente, che ha ampiamente modificato la progettualità – la Regione Umbria ha ritenuto di emanare il provvedimento di assoggettamento a V.I.A. ora impugnato.
La fondatezza di tali argomentazioni, la cui censura originaria, non scrutinata dal T.A.R. perché assorbita nella decisione di accoglimento, neppure risulta ritualmente riproposta in questa sede dalla Società appellata, non è peraltro più in discussione, essendosene consolidata la portata con il passaggio in giudicato in parte qua della sentenza impugnata.
19. L’ampia ricostruzione effettuata, consente di respingere anche l’ulteriore censura, concernente il mancato inoltro del preavviso di diniego ex art. 10 bis della l. n. 241/1990. Il Collegio peraltro ben conosce il diverso orientamento in forza del quale la autonomia dello stesso e la immediata lesività degli interessi di parte imporrebbe comunque tale garanzia partecipativa, allo scopo di acquisire elementi potenzialmente utili alla decisione. Coerentemente con quanto sopra detto, tuttavia, la Sezione ritiene piuttosto di aderire, ampliandola, alla diversa prospettazione in forza della quale la mancanza di un esito finale negativo rende il provvedimento impugnato ontologicamente incompatibile con la necessità del relativo preavviso. Nel giudizio di screening, infatti, non si addiviene ad un vero e proprio diniego, ma solo alla decisione di sottoporre a procedimento di valutazione un determinato progetto (cfr. T.A.R. Calabria, sez. I, 30 marzo 2017, n. 536; T.A.R. Puglia, sez. I, 10 luglio 2012, n. 1394).
A ben guardare, nessuna illegittimità, d’altra parte, può discendere dal fatto, in sé considerato, che la società non sia stata richiesta di fornire chiarimenti e dettagli di carattere tecnico o di altra natura, giacché non risulta che vi siano norme che impongano all’amministrazione pubblica di agire in questo senso. La facoltà, non obbligo, di richiedere per una sola volta integrazioni o chiarimenti alla parte, implica se mai la scelta inversa da parte del legislatore, che in tale momento preliminare ha rimesso alla discrezionalità dell’Amministrazione procedente anche la scelta di allungare i tempi dell’istruttoria, con il coinvolgimento della parte, ovvero addivenire comunque al diniego, non della V.I.A., ma della mera possibilità di pretermettere la stessa.
L’omesso preavviso di rigetto ex art. 10 bis della l. n. 241 del 1990, non è invocabile non solo per i provvedimenti di carattere vincolato, ma anche per quelli connotati ex lege da tratti di assoluta specialità, come pertanto riscontrabile nel caso di specie. La ribadita autonomia del procedimento di screening, infatti, non ne consente comunque lo snaturamento contenutistico, che resta quello di un – eventuale – passaggio intermedio verso la V.I.A. completa, al cui interno verranno recuperate tutte le necessarie istanze partecipative, e gli apporti contributivi che la parte vorrà addurre, in quanto essa sì risolvibile in un atto di diniego.
In sintesi, consentire di fornire apporti e chiarimenti di carattere anche tecnico al solo scopo di scongiurare più approfondite verifiche a tutela dell’ambiente, oltre ad appesantire inutilmente il procedimento, finirebbe per comprometterne la natura sommaria che necessariamente ne connota il giudizio, comunque non preclusivo degli esiti finali.
20. Alla stregua dei rilievi fin qui svolti, s’impone una decisione di accoglimento dell’appello, con riforma della sentenza impugnata e reiezione del ricorso di primo grado.
Le questioni vagliate esauriscono la vicenda sottoposta alla Sezione, essendo stati toccati tutti gli aspetti rilevanti a norma dell’art. 112 c.p.c. Gli argomenti di doglianza non espressamente esaminati sono stati, infatti, dal Collegio ritenuti non rilevanti ai fini della decisione e, comunque, inidonei a supportare una conclusione di segno diverso.
21. La complessità della vicenda in fatto e in diritto, giustifica la compensazione delle spese del doppio grado di giudizio.
P.Q.M.
Il Consiglio di Stato in sede giurisdizionale (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando sull'appello, come in epigrafe proposto, lo accoglie, nei sensi di cui in motivazione e, per l’effetto, in riforma della sentenza del T.A.R. per l’Umbria n. 152/2012, respinge il ricorso di primo grado n.r.g. 448/2011.
Spese del doppio grado compensate.
Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall'autorità amministrativa.
Così deciso dalla Sezione Seconda del Consiglio di Stato con sede in Roma nella camera di consiglio del giorno 7 luglio 2020, tenutasi con modalità da remoto e con la contemporanea e continuativa presenza dei magistrati:
[omissis]