Dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227, deve
qualificarsi come bosco – meritevole di protezione ai sensi dell’art. 181 del
d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – ogni terreno coperto da vegetazione forestale
arborea associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da
macchia mediterranea, purché aventi un’estensione non inferiore a mq. duemila,
con larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore al 20
per cento (Sez. 3, n. 32807 del 23/04/2013, Timori; Sez. 3, n. 1874 del
16/11/2006, dep. 2007, Monni).
Le leggi regionali possono dettare una diversa
disciplina ai fini dell’individuazione delle zone assoggettate a vincolo
paesaggistico e classificate “bosco” e, ai fini penali, tale nozione deve
intendersi in senso normativo e non naturalistico, in quanto finalizzata ad
evitare deturpamenti “a macchia” di aree boschive.
La disposizione normativa
prende in considerazione le caratteristiche di tutte le aree omogenee limitrofe
a quelle interessate dalle opere, e non solo queste ultime, giacché in tal caso
si potrebbero realizzare senza autorizzazione interventi di modifica di
territori aventi estensione inferiore ai 2000 metri quadrati, ancorché
limitrofi a più ampie aree omogenee ed aventi copertura boschiva, ciò che la
normativa citata ha appunto voluto vietare (Cass. Sez. 3, n. 28135 del
11/01/2012, Galluccio; Sez. 3, n. 28928 del 18/05/2011, Sardu).
Ma leggiamo tutta la senteza...
CORTE DI CASSAZIONE
PENALE, Sez. 3^, 17/09/2019 (Ud. 30/05/2019), Sentenza n.38471
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI
CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
SEZIONE TERZA PENALE
composta dagli Ill.mi
Sigg.ri Magistrati:
omissis
ha pronunciato la
seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto
da Stroppa Paolo, nato a Borgo Valsugana;
avverso la sentenza
del 12/09/2018 della CORTE DI APPELLO DI TRENTO;
visti gli atti, il
provvedimento impugnato e il ricorso;
sentita la relazione
svolta dal consigliere Gianni Filippo Reynaud;
lette le richieste del
Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Paolo
Canevelli, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per il
ricorrente l’avv. Daniele Tormen, il quale ha concluso chiedendo l’accoglimento
delle conclusioni del ricorso.
RITENUTO IN FATTO
1. Con sentenza del 12 settembre 2018, la Corte d’appello di Trento, in
parziale riforma della sentenza appellata dall’odierno ricorrente, ha ridotto
la pena inflitta, sostituendo la sanzione detentiva con quella pecuniaria, per
il resto confermando la condanna in ordine al reato di cui all’art. 181 d.lgs.
22 gennaio 2004, n. 42, per aver l’imputato effettuato lavori di bonifica
agraria in area boschiva, senza autorizzazione paesaggistica, determinandone la
trasformazione a prato.
La sentenza d’appello ha inoltre ordinato la rimessione in pristino dello
stato dei luoghi, non disposta dal giudice di primo grado.
2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione il difensore
del ricorrente deducendo, con il primo motivo, il vizio di motivazione per
manifesta illogicità e contraddittorietà della stessa con riguardo
all’affermazione dell’elemento oggettivo del reato.
Si lamenta, in particolare, che, in contrasto con le risultanze probatorie
(la relazione del c.t. di parte arch. Vignola, la perizia del dott. Ballardini,
il provvedimento della Provincia autonoma di Trento del 20 ottobre 2016), si
sia ritenuto che l’area interessata dai lavori fosse superiore a 2.000 mq.,
laddove essa era inferiore con conseguente insussistenza del reato.
3. Con il secondo motivo si lamenta la manifesta contraddittorietà della
motivazione in relazione al travisamento della prova, per la prima volta
effettuato nella sentenza di appello – sul punto divergente da quella di primo
grado – circa la decisività ai fini della sussistenza del reato dell’estensione
dell’area, da ritenersi quindi boschiva ai sensi dell’art. 2 d.lgs. 227/2001,
omettendo di considerare i dati probatori sopra richiamati.
4. Con il terzo motivo si deduce la manifesta illogicità della motivazione
con riguardo al rigetto della rinnovazione istruttoria volta ad ottenere una
perizia per accertare l’esatta estensione della superficie boschiva.
5. Con l’ultimo motivo si deduce violazione del divieto di reformatio in
peius per essere stata disposta in grado d’appello la sanzione accessoria della
rimessione in pristino dello stato dei luoghi evidentemente ritenuta non
applicabile in primo grado.
6. Con memoria datata 6 maggio u.s., il difensore ha addotto ulteriori
argomentazioni a sostegno dei primi tre motivi di ricorso, in particolare
osservando, con riguardo alla perizia descrittiva dello stato dei luoghi, che
la rinnovazione istruttoria avrebbe quantomeno dovuto riguardare la nuova
escussione dei dichiaranti, necessaria laddove il giudice d’appello abbia
diversamente valutato la loro attendibilità.
CONSIDERATO IN DIRITTO
1. I primi due motivi – da esaminarsi congiuntamente perché obiettivamente
connessi – sono manifestamente infondati.
1.1. Secondo il consolidato orientamento di questa Corte, che va qui
ribadito, dopo l’entrata in vigore del d.lgs. 18 maggio 2001, n. 227, deve
qualificarsi come bosco – meritevole di protezione ai sensi dell’art. 181 del
d.lgs. 22 gennaio 2004, n. 42 – ogni terreno coperto da vegetazione forestale
arborea associata o meno a quella arbustiva, da castagneti, sughereti o da
macchia mediterranea, purché aventi un’estensione non inferiore a mq. duemila,
con larghezza media non inferiore a metri venti e copertura non inferiore al 20
per cento (Sez. 3, n. 32807 del 23/04/2013, Timori, Rv. 255904; Sez. 3, n. 1874
del 16/11/2006, dep. 2007, Monni, Rv. 235869).
Le leggi regionali possono dettare una diversa disciplina ai fini dell’individuazione
delle zone assoggettate a vincolo paesaggistico e classificate “bosco” (cfr.
Sez. 3, n. 28135 del 11/01/2012, Galluccio, Rv. 253260) e, ai fini penali, tale
nozione deve intendersi in senso normativo e non naturalistico, in quanto
finalizzata ad evitare deturpamenti “a macchia” di aree boschive (Sez. 3, n.
28928 del 18/05/2011, Sardu, Rv. 250968, nella cui motivazione si precisa che
la disposizione normativa prende in considerazione le caratteristiche di tutte
le aree omogenee limitrofe a quelle interessate dalla opere, e non solo queste
ultime, giacché in tal caso si potrebbero realizzare senza autorizzazione
interventi di modifica di territori aventi estensione inferiore ai 2000 metri
quadrati, ancorché limitrofi a più ampie aree omogenee ed aventi copertura
boschiva, ciò che la normativa citata ha appunto voluto vietare).
1.2. La sentenza impugnata – che dà atto di come la legislazione della
provincia autonoma di Trento non detti una disciplina difforme da quella di
fonte statuale sopra richiamata – si è attenuta a tali principi e, diversamente
da quanto si sostiene in ricorso, non appare provato il travisamento della
prova.
La sentenza, infatti, dà atto (pagg. 6 e 7) che l’istruttoria testimoniale
aveva dimostrato come tutta l’area interessata dai lavori fosse coperta da
vegetazione arborea, mentre nessun elemento fattuale consenta di ritenere
dimostrato che essa fosse di estensione inferiore a quanto indicato nel’art. 2
d.lgs. 227/2001.
1.3. Il ricorso contesta genericamente tali assunti, richiamando atti
processuali che, tuttavia, in spregio al principio di autosufficienza, non
vengono trascritti o allegati, sì da non consentire al Collegio di verificare
il dedotto travisamento, non potendosi ovviamente ricavarne la fondatezza da
quella parti della sentenza impugnata che si limitano a riassumere i motivi di
appello, motivi ritenuti infondati dalla Corte territoriale.
2. Il terzo motivo di ricorso è infondato.
La sentenza impugnata ha rigettato l’istanza di rinnovazione istruttoria
sul rilievo che la richiesta perizia era irrilevante perché finalizzata ad
accertare l’esatta individuazione, sull’area interessata dai lavori,
dell’estensione di quella sottoposta a vincolo idrogeologico.
In effetti, l’atto di appello – richiamando anche la consulenza tecnica di
parte dell’arch. Vignola – puntava soprattutto sul fatto che i lavori oggetto
di contestazione non si sarebbero svolti su aree “ad elevata penalità geologica
e idrogeologica” e la sentenza impugnata correttamente rileva che, «al fine di
verificare se l’area oggetto di intervento sia o meno da considerare sottoposta
a tutela paesaggistica è irrilevante intrattenersi sulla problematica
dell’esistenza, ed in quali limiti di estensione, di un vincolo idrogeologico
tale da far ricadere o meno il sedime in zona soggetta ad elevata penalità».
Il rigetto della richiesta di rinnovazione istruttoria, dunque, si è
focalizzato sulla finalità della prova peritale quale principalmente
individuata dall’appellante, il quale, ora in veste di ricorrente – alla luce
della ratio decidendi che sorregge la sentenza impugnata – tenta invece di
“riconvertirla” al fine di accertare se l’area superasse o meno i 2.000 mq.
2.1.
Come detto, tuttavia, questa conclusione è stata ritenuta sufficientemente
provata dalla Corte territoriale, sicché, anche a volerla considerare sotto
questo profilo – e un accenno in tal senso poteva in effetti essere colto nella
dichiarazione d’appello – la doglianza è infondata.
Ed invero, nella giurisprudenza di questa Corte è consolidato il principio
secondo cui, in tema di rinnovazione, in appello, della istruzione
dibattimentale, mentre la decisione di procedere a rinnovazione deve essere
specificatamente motivata, occorrendo dar conto dell’uso del potere
discrezionale, derivante dalla acquisita consapevolezza della rilevanza
dell’acquisizione probatoria, nella ipotesi di rigetto, viceversa, la decisione
può essere sorretta anche da una motivazione implicita nella stessa struttura
argomentativa posta a base della pronuncia di merito, che evidenzi la
sussistenza di elementi sufficienti per una valutazione in ordine alla
responsabilità, con la conseguente mancanza di necessità di rinnovare il
dibattimento (Sez. 6, n. 5782/2007 del 18/12/2006, Gagliano, Rv. 236064; Sez.
6, n. 40496 del 21/05/2009, Messina e a., Rv. 245009; Sez. 3, n. 24294 del
07/04/2010, D.S.B., Rv. 247872).
3. Il quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato.
Questa Corte ha da tempo affermato il principio secondo cui il divieto
della “reformatio in peius” che, nel caso di impugnazione proposta dal solo
imputato, l’ordinamento processuale impone al giudice di appello, attiene alle
ipotesi di aggravamento – per specie o quantità – della pena, di applicazione
di nuova o più grave misura di sicurezza, di pronunzia di proscioglimento con
formula meno favorevole o di revoca di benefici; in detto divieto non è
compreso l’ordine di demolizione della costruzione abusiva, impartito dal
giudice ai sensi dell’art. 7 legge 28 febbraio 1985 n. 47, trattandosi non di
pena accessoria, ma di sanzione amministrativa di tipo ablatorio,
consequenziale alla sentenza di condanna e la cui irrogazione costituisce atto
dovuto (Sez. 5, n. 13812 del 11/11/1999, Giovannella e a., Rv. 214608).
Del resto, è altrettanto pacifico che la previsione di cui all’art. 597,
comma 3, cod. proc. pen. non contempla, tra i provvedimenti peggiorativi
inibiti al giudice di appello, le pene accessorie che, ex art. 20 cod. pen.,
conseguono di diritto alla condanna come effetti penali di essa. È pertanto
legittima l’applicazione d’ufficio, da parte del giudice di appello, tramite il
procedimento di correzione di errore materiale, delle pene accessorie non
applicate in primo grado (Sez. 3, n. 30122 del 20/12/2016, dep. 2017, Rv.
270455; Sez. 5, n. 8280 del 22/01/2008, Ciocci, Rv. 239474).
Identico principio è stato più volte affermato – a fortiori – con riguardo
alle sanzioni amministrative accessorie che conseguono ex lege alla sentenza di
condanna (o a quelle ad essa equiparate come le sentenze di applicazione pena):
l’omissione, nella sentenza di patteggiamento, di sanzioni amministrative
obbligatorie accessorie e a contenuto predeterminato, come la demolizione di
immobili abusivi o la rimessione in pristino dello stato dei luoghi per le
violazioni paesaggistiche, è emendabile con il procedimento di correzione
dell’errore materiale ex art. 130 cod. proc. pen. dal giudice che ha
pronunciato la sentenza di condanna o dal giudice dell’impugnazione ove questa
non sia inammissibile (Sez. 3, n. 35200 del 26/04/2016, Prestifilippo, Rv.
268106; Sez. 3, n. 40340 del 27/05/2014, Bognanni, Rv. 260421). Questa
situazione ovviamente non ricorre laddove l’omissione di una statuizione
prevista dalla legge non discenda da una dimenticanza, ma sia ricollegabile a
una determinata, anche se – in ipotesi – errata, interpretazione della norma,
ciò a cui può porsi rimedio soltanto con l’impugnazione (Sez. 6, n. 25861 del
28/03/2013, Dinuzzi, Rv. 255669; Sez. 5, n. 2768 del 06/06/1997, Montella, Rv.
208363).
Nel caso di specie non risulta che ciò si sia verificato: semplicemente, il
giudice di primo grado non si è posto il problema di disporre la sanzione
amministrativa accessoria e trattasi, dunque, di mera omissione.
Va, pertanto, affermato il principio secondo cui il divieto della
“reformatio in peius”, previsto dall’art. 597, comma 3, cod. proc. pen. quando
appellante è il solo imputato, non impedisce che il giudice d’appello ordini la
rimessione in pristino dello stato dei luoghi prevista in caso di sentenza di
condanna dall’art. 181, comma 2, d.lgs. 42 del 2004, allorquando, per mera
omissione, la stessa non sia stata disposta con la sentenza di primo grado,
trattandosi di sanzione amministrativa la cui irrogazione costituisce atto
dovuto.
4. La memoria contenente motivi aggiunti non ha addotto argomentazioni
diverse da quelle sopra già valutate se non con riguardo al fatto che, in via
subordinata rispetto alla rinnovazione istruttoria peritale oggetto del terzo
motivo di ricorso, si sarebbe quantomeno dovuta rinnovare l’audizione
testimoniale dei periti/consulenti escussi in primo grado.
La doglianza è inammissibile per manifesta infondatezza, posto che a
sostegno della stessa si richiamano principi affermati con riguardo al
ribaltamento in grado d’appello di pronunce assolutorie rese in primo grado,
riconducibili alla previsione oggi contenuta nell’art. 603, comma 3-bis, cod.
proc. pen., vale a dire ad una situazione che nel caso di specie pacificamente
non ricorre.
5. Il ricorso, complessivamente infondato, va rigettato con condanna del
ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e
condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 30
maggio 2019.