La detenzione di un animale in condizioni tali da costringerlo ad un portamento innaturale, tale da impedire o rendere difficoltosa la deambulazione o dal mantenere una posizione eretta e stabile, integra la violazione dell'art. 727 cod. pen..  Nel caso di specie, il Tribunale ha posto in evidenza come a 12 asini, per la lunghezza delle unghie, era impedita o, comunque, resa particolarmente difficoltosa la deambulazione, tanto che uno di essi non riusciva neppure ad alzarsi dal camion ove si trovava, esponendoli a grossi rischi durante l'alpeggio, dovendosi muovere su un terreno che non è piano.

In tema di maltrattamento di animali, la detenzione impropria di animali, produttiva di gravi sofferenze, va considerata, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), attingendo al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali, specificando che assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell'animale, procurandogli dolore e afflizione, prendendo in considerazioni situazioni quali, ad esempio, la privazione di cibo, acqua e luce o il trasporto di bovini stipati in un furgone di piccole dimensioni e privo d'aria.
 
Ma leggiamo la sentenza della Suprema Corte:
 
 
CORTE DI CASSAZIONE PENALE, Sez.3^ 04/04/2019 (Ud. 08/02/2019), Sentenza n.14734
 
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
 
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
 
composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
 
omissis 
  
ha pronunciato la seguente
 
SENTENZA
 
sul ricorso proposto da CAPELLONI ETTORE nato a GOTTOLENGO;
 
avverso la sentenza del 21/03/2018 del TRIBUNALE di CUNEO;
 
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
 
udita la relazione svolta dal Consigliere LUCA RAMACCI;
 
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore PIETRO MOLINO che ha concluso chiedendo l'inammissibilita' del ricorso.
 
udito il difensore
 
RITENUTO IN FATTO
 
1. Il Tribunale di Cuneo, con sentenza del 21 marzo 2018 ha affermato la responsabilità penale di Ettore CAPELLONI che ha condannato alla pena dell'ammenda, per il reato di cui all'art. 727 cod. pen., perché, nella sua qualità di titolare di aziende agricole, faceva trasportare 63 asini di proprietà delle citate aziende e destinati alla monticazione, alcuni dei quali erano detenuti in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze ed, in particolare: 12 asini con evidenti difficoltà di deambulazione per le unghie eccessivamente lunghe, che necessitavano di cure di maniscalco ed un asino che non era in grado di reggersi in piedi e, perciò, di affrontare il viaggio (in Acceglio, accertato il 16 settembre 2016).
 
2. Con un primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e, segnatamente, la nullità del decreto penale di condanna per omessa allegazione della richiesta di emissione del decreto del Pubblico Ministero, che avrebbe determinato un vizio di motivazione ai sensi dell'articolo 460, n. 1, lett. c) cod. proc. pen.
 
3. Con un secondo motivo di ricorso denuncia la violazione dell'articolo 420-ter cod. proc. pen., perché il Tribunale avrebbe omesso di concedere un rinvio per legittimo impedimento dell'imputato, comunicato con atto in data 13 marzo 2018 nel quale si deduceva che egli era stato colpito da infarto miocardico il 3/12/2017 e che, in data 8 marzo 2018, era stata certificata da un medico la necessità di altri 45 giorni di convalescenza.
 
Aggiunge di aver manifestato l'intenzione di partecipare personalmente alla discussione del processo che lo riguardava, ma, stante lo stato di convalescenza e la lunga trasferta necessaria (320 km all'andata e 320 km al ritorno), si rendeva indispensabile la richiesta di differimento, respinta, però, dal Tribunale.
 
4. Con un terzo motivo di ricorso si duole della violazione e dell'errata applicazione dell'art. 727 cod. pen., osservando che, per una serie di ragioni, specificate nel dettaglio, gli animali si trovavano in buone condizioni di salute e che, per poter ritenere la detenzione degli stessi in condizioni incompatibili con la loro natura, il giudice del merito non avrebbe potuto prescindere dal necessario requisito della sofferenza, che non sarebbe stato adeguatamente dimostrato.
 
5. Con un quarto motivo di ricorso deduce la violazione dell'art. 131-bis cod. pen., lamentando che le modalità della condotta e l'esiguità del pericolo avrebbero dovuto consentire l'applicazione della causa di non punibilità.
 
Insiste, pertanto, per l'accoglimento del ricorso.
 
CONSIDERATO IN DIRITTO
 
1. Il ricorso è inammissibile.
 
2. Occorre rilevare, con riferimento al primo motivo di ricorso, che lo stesso è manifestamente infondato.
 
La giurisprudenza di questa Corte ha affermato che il decreto penale, una volta fatto oggetto di opposizione, perde la sua natura di condanna anticipata e produce unicamente l'effetto di costituire il presupposto per l'introduzione di un giudizio (immediato, abbreviato o di patteggiamento) del tutto autonomo e non più dipendente da esso, che, in ogni caso, ai sensi dell'art. 464, comma 3, cod. proc. pen., è revocato "ex nunc" dal giudice che procede dopo la verifica della rituale instaurazione del giudizio, escludendosi, pertanto, la possibilità che il giudice del dibattimento conseguente all'opposizione possa dichiarare la nullità del decreto penale (Sez. 3, n. 20261 del 18/3/2014, Luzzana, Rv. 259648).
 
Sulla base del medesimo principio, peraltro, è stato più volte ritenuto abnorme il provvedimento con cui il giudice del dibattimento, davanti al quale si è instaurato il giudizio ordinario a seguito di opposizione a decreto penale di condanna, dichiari la nullità di quest'ultimo ed ordini la trasmissione degli atti al pubblico ministero. (Sez. 1, n. 22710 del 5/12/2012 (dep. 2013), Confl. comp. in proc. Kebao, Rv. 256538; Sez. 6, n. 48452 del 20/11/2008, P.M. in proc. Esposito, Rv. 242142 Sez. 1, n. 38435 del 16/9/2008, Rossetti, Rv. 241613; Sez. 4, n. 19268 del 9/1/2003, PM in proc. Francese, Rv. 224840).
 
Il principio è pienamente condiviso dal Collegio, che intende farlo proprio, assicurandone la continuità, escludendo dunque, prescindendo dalla fondatezza o meno della eccezione di nullità, che la stessa non poteva in ogni caso trovare ingresso nel giudizio di opposizione al decreto penale di condanna, con conseguente inammissibilità del motivo di ricorso.
 
3. Parimenti inammissibile risulta il secondo motivo di ricorso.
 
Occorre, innanzi tutto, rilevarne la genericità, in quanto il ricorrente propone la questione affermando che il Tribunale, nel negare il differimento dell'udienza, sarebbe incorso in una violazione di legge, senza tuttavia minimamente confrontarsi con le motivazioni del provvedimento di diniego, che neppure menziona, limitandosi a rilevare che la sentenza impugnata richiama l'ordinanza di rigetto, senza null'altro aggiungere.
 
Occorre a tale proposito ricordare che, in linea generale, si è stabilito, con riferimento all'imputato contumace, che, in tema di legittimo impedimento, la scelta di rimanere estraneo al processo, conclamata dalla dichiarazione di contumacia, determina che in caso di rinvio dell'udienza egli non possa far valere un impedimento a comparire per la prosecuzione, senza far precedere la richiesta dalla volontà esplicita di voler partecipare al processo (Sez. 2, n. 2559 del 19/12/2014 (dep. 2015), D'Angelo, Rv. 262282; Sez. 2, n. 44214 del 18/10/2013, Conte, Rv. 257504; Sez. 2, n. 1633 del 19/02/2003 - dep. 21/01/2004, PM. in proc. Leone, Rv. 227244) e tali argomentazioni possono essere utilizzate anche con riferimento alla posizione dell'assente.
 
Sempre in generale, con riferimento all'impedimento a comparire dell'imputato, le Sezioni Unite di questa Corte hanno stabilito che il giudice, nel disattendere il contenuto del certificato medico, deve considerare la natura dell'infermità e valutarne il carattere impeditivo e può pervenire ad un giudizio negativo circa l'assoluta impossibilità a comparire solo disattendendo, con adeguata valutazione del referto, la rilevanza della patologia da cui si afferma colpito l'imputato (Sez. U, n. 36635 del 27/09/2005, Gagliardi, Rv. 231810).
 
Successivamente, si è anche affermato che la produzione del certificato medico non esclude la possibilità, per il giudice, indipendentemente da una verifica fiscale e mediante il ricorso a nozioni di comune esperienza, di procedere ad una valutazione circa l'effettiva impossibilità di comparire in giudizio se non a prezzo di un grave e non altrimenti evitabile rischio per la salute, che non può ritenersi preclusa dall'indicazione generica della necessità di riposo e cure (Sez. 5, n. 44369 del 29/4/2015, Romano, Rv. 265819; Sez. 6, n. 36636 del 3/6/2014, F, Rv. 260814; Sez. 5, n. 44845 del 24/9/2013, Hrvic, Rv. 257133; Sez. 6, n. 4284 del 10/1/2013, G., Rv. 254896), aggiungendosi anche che la certificazione medica, per essere adeguatamente apprezzata, deve contenere anche quelle indicazioni (quali, nella fattispecie, il grado della febbre) che si rivelano essenziali alla valutazione della fondatezza, serietà e gravità dell'impedimento (Sez. 6, n. 20811 del 12/5/2010, S., Rv. 247348. V. anche Sez. 5, n. 3558 del 19/11/2014 (dep. 2015), Margherita e altro, Rv. 262846).
 
Ciò posto, dall'esame del verbale di udienza, consentito in questa sede di legittimità stante la natura processuale della questione prospettata, emerge come, nell'ordinanza con la quale rigettava la richiesta, il giudice abbia dato atto del fatto che, dalla documentazione prodotta, non risultava che permanesse l'impedimento dell'imputato, in quanto l'ultima certificazione medica attestava l'impedimento "dall'attività lavorativa" per 45 giorni a decorrere dal 17/1/2018 e tale termine era ormai spirato senza che fosse attestato un ulteriore impedimento. Si tratta, conseguentemente, di una decisione immune da qualsiasi censura, che evidenzia la manifesta infondatezza del moilivo di ricorso.
 
4. Il terzo motivo di ricorso, poi, non merita miglior sorte dei precedenti. 
 
Come è noto, l'ambito di operatività dell'articolo 727 cod. pen. è ora circoscritto - dopo l'introduzione dei delitti contro il sentimento per gli animali nel codice penale - all'abbandono di animali domestici o che abbiano acquisito abitudine alla cattività ed alla detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura e produttive di gravi sofferenze.
 
Si è ripetutamente chiarito che la detenzione impropria di animali, produttiva di gravi sofferenze, va considerata, per le specie più note (quali, ad esempio, gli animali domestici), attingendo al patrimonio di comune esperienza e conoscenza e, per le altre, alle acquisizioni delle scienze naturali (Sez. 3, n. 37859 del 4/6/2014, Rainoldi e altro, Rv. 260184; Sez. 3, n. 6829 del 17/12/2014 (dep. 2015), Garnero, Rv. 262529), specificando che assumono rilievo non soltanto quei comportamenti che offendono il comune sentimento di pietà e mitezza verso gli animali per la loro manifesta crudeltà, ma anche quelle condotte che incidono sulla sensibilità psico-fisica dell'animale, procurandogli dolore e afflizione (Sez. 7, n. 46560 del 10/7/2015, Francescangeli e altro, Rv. 265267), prendendo in considerazioni situazioni quali, ad esempio, la privazione di cibo, acqua e luce (Sez. 6, n. 17677 del 22/3/2016, Borghesi, Rv. 267313) o il trasporto di bovini stipati in un furgone di piccole dimensioni e privo d'aria (Sez. 5, n. 15471 del 19/1/2018, PG. in proc. Galati e altro, Rv. 272851).
 
Nel caso di specie, il Tribunale ha posto in evidenza come agli animali, per la lunghezza delle unghie, era impedita o, comunque, resa particolarmente difficoltosa la deambulazione, tanto che uno di essi non riusciva neppure ad alzarsi dal camion ove si trovava, esponendoli a grossi rischi durante l'alpeggio, dovendosi muovere su un terreno che non è piano.
 
Ciò posto, rileva il Collegio che la detenzione in tali condizioni, indipendentemente dalla conduzione o meno degli animali all'alpeggio, deve ritenersi certamente incompatibile con la loro natura e produttiva di gravi sofferenze, considerando che la eccessiva lunghezza delle unghie, rendendo difficoltosa per l'animale anche la semplice deambulazione ed in un caso, rendendogli impossibile lo stare in piedi, lo costringe a posture innaturali che, peraltro, incidono sul requisito essenziale della stabilità, assicurata, nei quadrupedi, dalla particolare sequenza dei movimenti delle zampe e non può dirsi che una simile condizione sia solo innaturale e non anche produttiva di gravi sofferenze, dovendosi intendere, come tali, non necessariamente quelle condizioni che possono determinare un vero e proprio processo patologico, bensì anche i meri patimenti (come già ritenuto, con riferimento alla precedente formulazione della disposizione in esame, dalla risalente Sez. 3, n. 1215 del 21/12/1998 (dep. 1999), Crispolti p Rv. 212833, nonché, con riferimento all'attuale configurazione, da Sez. 3„ n. 175 del 13/11/2007 (dep. 2008), Mollaian, Rv. 238602).
 
5. Ne consegue che anche la detenzione di un animale in condizioni tali da costringerlo ad un portamento innaturale, tale da impedire o rendere difficoltosa la deambulazione o dal mantenere una posizione eretta e stabile, integra la violazione dell'art. 727 cod. pen. La sentenza impugnata risulta, dunque, sul punto, immune da censure e le argomentazioni in fatto, sviluppate in ricorso al fine di dimostrare l'insussistenza del reato, non possono essere prese in considerazione in questa sede, non essendo compito di questa Corte quello di ripetere l'esperienza conoscitiva del giudice del merito.
 
6. Infine, anche il Quarto motivo di ricorso è manifestamente infondato. 
 
Per quanto è dato rilevare dalla sentenza impugnata e dal ricorso, l'imputato ed il suo difensore non hanno prospettato al giudice del merito la questione della particolare tenuità del fatto e, secondo quanto già affermato da questa Corte, quando la sentenza di merito è successiva alla vigenza della nuova causa di non punibilità, la questione dell'applicabilità dell'art. 131-bis cod. pen. non può essere posta per la prima volta nel giudizio di legittimità come motivo di violazione di legge (cfr. Sez. 3, n. 23174 del 21/3/2018, Sarr, Rv. 272789; Sez. 5, n. 57491 del 23/11/2017, Moio, Rv. 271877; Sez. 3, n. 19207 del 16/3/2017, Celentano, Rv. 269913; Sez. 6, n. 20270 del 27/4/2016, Gravina, Rv. 26667801; Sez. 7, n. 43838 del 27/5/2016, Savini, Rv. 26828101), né può affermarsi, in assenza di specifica richiesta, che nella fattispecie il giudice avesse l'obbligo di pronunciarsi comunque. 
 
7. Il ricorso, conseguentemente, deve essere dichiarato inammissibile e alla declaratoria di inammissibilità consegue l'onere delle spese del procedimento, nonché quello del versamento, in favore della Cassa delle ammende, della somma, equitativamente fissata, di euro 2.000,00.
 
P.Q.M.
 
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese del procedimento e della somma di euro 2.000,00 (duemila) in favore della Cassa delle ammende.
 
Così deciso in data 8/2/2019