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lunedì 29 ottobre 2018

Cassazione: quando è reato bruciare le potature?

In materia di rifiuti, l'art. 185, comma 1, lett. f), del D.L.vo 152/2006 stabilisce che non costituiscono rifiuto, tra le altre materie, la paglia, gli sfalci e le potature provenienti dalle attività di  cui all'articolo 184, comma 2, lettera e), e comma 3, lettera a), nonché ogni altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso destinati alle normali pratiche agricole e zootecniche o utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana. Pertanto, integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi, di cui all'art. 256, comma 1, lett. a), del medesimo decreto, la combustione di residui vegetali effettuata senza titolo abilitativo nel luogo di produzione, oppure di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato, se commessa al di fuori delle condizioni previste dall'articolo 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo. Al contrario, la combustione di rifiuti urbani vegetali, abbandonati o depositati in modo incontrollato, provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali, è punita esclusivamente in via amministrativa, ai sensi dell'art. 255 del citato decreto.



Penale Sent. Sez. 3 Num. 39325 Anno 2018
Data Udienza: 31/05/2018

SENTENZA

sul ricorso proposto da M.P., nato a ___ (Le) il XX/XX/XXXX avverso la sentenza del 13/10/2017 della Corte di appello di Lecce;
visti gli atti, il provvedimento impugnato ed il ricorso;
sentita la relazione svolta dal consigliere E.M.;
udite le conclusioni del Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Fulvio Baldi, che ha concluso chiedendo ilrigetto del ricorso;
udite le conclusioni del difensore del ricorrente, Avv. F. A., che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso


RITENUTO IN FATTO

1. Con sentenza del 13/10/2017, la Corte di appello di Lecce confermava la pronuncia emessa il 15/7/2016 dal locale Tribunale, con la quale E. M. era stato giudicato colpevole delle contravvenzioni di cui agli artt. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380-256, comma 1, lett. a), d. lgs. 22 gennaio 2006, n. 152, e condannato alla pena quattro mesi di arresto e 10.000,00 euro di ammenda; allo stesso era contestato di aver realizzato, in difetto di permesso di costruire, lo scavo e la tettoia specificati nel capo a) della rubrica, così illecitamente effettuando, sullo stesso sito, un'attività di
smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi.
2. Propone ricorso per cassazione il M., a mezzo del proprio difensore, deducendo i seguenti motivi:
- inosservanza ed erronea applicazione della legge penale; vizio motivazionale. La Corte di appello avrebbe confermato la condanna, quanto alla violazione del d.P.R. n. 380 del 2001, pur a fronte di opere che non necessiterebbero del permesso di costruire; ciò, con riguardo sia allo scavo (atteso che i movimenti di terra strettamente pertinenti all'esercizio dell'attività agricola, quale quella svolta dal ricorrente, rientrerebbero in attività edilizia libera) che alla tettoia (che la stessa sentenza avrebbe qualificato come struttura precaria, tale, quindi, da non richiedere il provvedimento amministrativo);
- inosservanza ed erronea applicazione della legge penale quanto al reato sub b). Il Collegio avrebbe erroneamente affermato la natura di rifiuto di sfalci, potature e ramaglie, sebbene l'art. 185, d. Igs. n. 152 del 2006 lo escluda espressamente; con la precisazione, peraltro, che gli scarti vegetali non fermenterebbero, come asserito immotivatamente in sentenza, ma si trasformerebbero naturalmente in humus;
- inosservanza ed erronea applicazione dell'art. 131-bis cod. pen., il cui istituito sarebbe stato escluso pur ricorrendone i presupposti, specie in punto di offensività della condotta.
Si chiede, pertanto, l'annullamento della sentenza.

CONSIDERATO IN DIRITTO

3. Il ricorso risulta manifestamente infondato.
Con riguardo alla prima censura, relativa alla contestazione sub art. 44, comma 1, lett. b), d.P.R. n. 380 del 2001, osserva il Collegio che la motivazione stesa dalla Corte di merito emerge come del tutto adeguata, fondata su oggettive - e non contestate - risultanze istruttorie e priva di qualsivoglia illogicità manifesta od aporia argomentativa; una motivazione, quindi, non censurabile, specie a fronte di un gravame che tende di fatto ad ottenere, in questa sede, una nuova ed alternativa lettura delle medesime emergenze istruttorie già esaminate dai Giudici del merito, quel che all'evidenza non è consentito alla Corte di legittimità.
4. In particolare, e muovendo dallo scavo, la sentenza ne ha evidenziato innanzitutto le dimensioni (4 metri circa di profondità per 80-90 metri quadri circa di superficie), tali - già ex se - da integrare quella trasformazione urbanistica del territorio che impone il rilascio del permesso di costruire; quanto precede, peraltro, in adesione al costante e condiviso indirizzo a mente del quale, in tema di reati urbanistici, le opere di scavo, di sbancamento e di livellamento del terreno, finalizzate ad usi diversi da quelli agricoli (non riscontrati nel caso di specie), in quanto incidono sul tessuto urbanistico del territorio, sono assoggettate a titolo abilitativo edilizio (tra le altre, Sez. 3, n.4916 del 13/11/2014, Agostini, Rv. 262475; Sez. 3, n. 1308 del 15/11/2016, Palma, Rv. 268847). Conclusione che, peraltro, non può esser certo superata dall'argomento, di cui al ricorso, secondo il quale il movimento di terra costituirebbe attività edilizia libera, quando strettamente pertinente a quella agricola, ai sensi dell'art. 6, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 380 del 2001; osserva la Corte, infatti, che, nel caso di specie, difetta in toto il presupposto applicativo della norma, ossia che l'intervento in oggetto fosse "strettamente pertinente all'esercizio dell'attività agricola".
Come affermato nella sentenza impugnata - e non contestato nel gravame - l'intervento era infatti destinato ad accogliere un deposito di ramaglie, radici, sfalci di potatura, rami, tronchi e scarti di piante, peraltro con collocazione di una tettoia abusiva; quel che non pertiene affatto, peraltro "strettamente", all'attività floroviavistica esercitata dal ricorrente, ma integra appieno (come si dirà infra) un intervento illecito nei termini contestati.
5. Alle medesime conclusioni, poi, perviene la Corte anche con riguardo alla citata tettoia.
Ed invero, a fronte di un gravame che reiterava la tesi per la quale si tratterebbe di un'opera precaria, la Corte di appello ha evidenziato che la struttura - della superficie di circa 100 mq. - non risultava volta a soddisfare esigenze temporanee, ma durature, quale la copertura dello scavo appena sopra esaminato. Opere, quindi, tendenzialmente stabili e destinate a modificare l'assetto urbanistico del territorio; sì da imporre il citato titolo urbanistico. In tal modo, quindi, la sentenza ha aderito al costante indirizzo di questa Corte in forza del quale il carattere della precarietà non può essere desunto dalla temporaneità della destinazione soggettivamente data all'opera dal costruttore, ma deve ricollegarsi alla intrinseca destinazione materiale della stessa ad un uso realmente precario e temporaneo per fini specifici, contingenti e limitati nel tempo, con conseguente possibilità di successiva e sollecita eliminazione, non risultando, peraltro, sufficiente la sua rimovibilità o il mancato ancoraggio al suolo (tra le altre, Sez. 3, n. 36107 del 30/6/2016, Arrigoni, Rv. 267759; Sez. 3, n. 966 del 26/11/2014, Manfredini, Rv. 261636; Sez. 3, n. 22054 del 25/2/2009, Frank, Rv. 243710).
6. Manifestamente infondata, di seguito, risulta anche la censura relativa al secondo capo della rubrica.
L'art. 185, comma 1, lett. f), d. lgs. n. 152 del 2006 stabilisce che non costituiscono rifiuto, tra le altre materie, la paglia, gli sfalci e le potature provenienti dalle attività di cui all'articolo 184, comma 2, lettera e), e comma 3, lettera a), nonché ogni altro materiale agricolo o forestale naturale non pericoloso destinati alle normali pratiche agricole e zootecniche o utilizzati in agricoltura, nella silvicoltura o per la produzione di energia da tale biomassa, anche al di fuori del luogo di produzione ovvero con cessione a terzi, mediante processi o metodi che non danneggiano l'ambiente né mettono in pericolo la salute umana. In forza di questo principio, ad esempio, è stato affermato che integra il reato di smaltimento non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi, di cui all'art. 256, comma , lett. a), d.lgs. 3 aprile 2006 n. 152, la combustione di residui vegetali effettuata senza titolo abilitativo nel luogo di produzione oppure di materiale agricolo o forestale naturale, anche derivato da verde pubblico o privato, se commessa al di fuori delle condizioni previste dall'articolo 182, comma 6-bis, primo e secondo periodo; viceversa, la combustione di rifiuti urbani vegetali, abbandonati o depositati in modo incontrollato, provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali, è punita esclusivamente in via amministrativa, ai sensi dell'art. 255 del citato d.lgs. n. 152 (tra le altre, Sez. 3, n. 38658 del 15/6/2017, Pizzo, Rv. 270897; Sez. 3, n. 5504 del 12/1/2016, Lazzarini, Rv. 265838).
7. Tanto premesso, emerge allora evidente - dalla lettura della sentenza impugnata - che il caso in esame non rientra affatto nella tipologia appena richiamata e fatta propria dal ricorrente, risultando piuttosto che: a) gli scarti in oggetto, ammassati nello scavo profondo 4 metri, non avrebbero potuto esser riutilizzati nello stesso od in altro processo produttivo; b) gli stessi si presentavano in stato di putrefazione, con emanazione di reflui maleodoranti.
Dal che, la conclusione - corretta e qui non censurabile - per la quale si doveva ravvisare un deposito incontrollato di rifiuti, "in quanto, pur essendo stati gli scarti vegetali accatastati nello stesso luogo di produzione, la loro quantità e le modalità di conservazione (ammassati all'interno di uno scavo profondo circa 4 metri) erano tali da far ritenere che non si trattasse di mero deposito temporaneo finalizzato al successivo smaltimento".
Quel che, peraltro, non è possibile di certo superare con l'argomento, di cui al ricorso, secondo cui "è notorio che gli scarti vegetali si trasformano in humus, ma non fermentano".
8. Da ultimo, la causa di esclusione della punibilità di cui all'art. 131-bis cod. pen.; anche al riguardo, la doglianza mossa risulta manifestamente infondata.
La Corte di appello, investita della questione, ha infatti affermato che non erano ravvisabili i presupposti di cui alla norma, attesa la gravità della condotta in relazione alla pluralità dei manufatti realizzati in assenza di titolo autorizzativo, e, quanto al reato ambientale, alla luce della quantità dei rifiuti ed alle modalità di conservazione di questi; una motivazione del tutto adeguata, quindi, anche in ragione delle dimensioni degli illeciti, ed aderente alla lettera ed alla ratio dell'istituto, con la quale è stata congruamente esclusa la particolare tenuità del fatto. E senza che, peraltro, rilevino la  successiva rimozione dello scavo, ad opera del ricorrente, o la mancata costituzione (così come l'estromissione) di parti civili.
9. Il ricorso, pertanto, deve essere dichiarato inammissibile. Alla luce della sentenza 13 giugno 2000, n. 186, della Corte costituzionale e rilevato che, nella fattispecie, non sussistono elementi per ritenere che «la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità», alla declaratoria dell'inammissibilità medesima consegue, a norma dell'art. 616 cod. proc. pen., l'onere delle spese del procedimento nonché quello del versamento della somma, in favore della Cassa delle ammende, equitativamente fissata in euro 2.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 31 maggio 2018